Quante volte abbiamo sentito mettere in contrasto gli anni ’80 con gli anni ’90? Innumerevoli. Quante band sono riuscite a non collocarsi e a sfuggire a un tale scontro tra titani? Pochissime. Tra queste, ce n’è una che si è innalzata al di sopra degli orizzonti temporali più di tutte, facendo tendenza in ogni momento della sua lunga storia. Depeche Mode, baby.
Anno di riferimento, 1993. Qualcosa sta cambiando. Sono i primi anni della musica commerciale come la conosciamo oggi. Mtv è testimone dell’esplosione del grunge firmato Nirvana e Pearl Jam, della consacrazione dell‘hip-hop come stile di vita a 360 gradi. Regna un’atmosfera di rottura col passato. Mi viene in mente una battuta di Mickey Rourke in The Wrestler: “Gli anni ’80 erano il meglio. Ma poi è arrivato quel frocio di Kurt Cobain e ha rovinato tutto”.
In realtà, questo duello tra decenni era più sentito dai fans che dagli artisti. Kurt Cobain voleva essere portavoce di una nuova forza artistica e sociale, proprio come Eddie Vedder, o Dr. Dre o Snoop Dogg. Ma non odiava il rock classico o l‘hair metal, come tanti sostengono. Anzi, erano la sua “fondazione”, traducendo letteralmente dall’inglese.

1981
Ma con un clima simile, com’è possibile mantenere il successo conquistato nel decennio appena concluso? Bisogna evolversi. Chi ci è riuscito si è definitivamente lanciato verso l’Olimpo della musica. I primi due nomi che mi vengono in mente sono quelli di Sting e dei Red Hot Chili Peppers, per cui la transizione ’80-’90 può essere considerata più facile date le loro origini musicali, collocabili ben prima degli eighties e sempre attuali: blues e jazz per Sting, funky per i Red Hot.
Ma se si è esplosi con un genere nato quasi da zero, si rischia di legarsi inscindibilmente al periodo in cui ci si trova sulla cresta dell’onda. È il problema dei Depeche Mode. Al loro debutto, nel 1981 con l’album Speak and Spell, quegli allegri ragazzotti inglesi somigliano molto a una boyband. Non sfornano però un disco qualsiasi, da gettare nel dimenticatoio dopo qualche settimana di top ten in classifica, bensì uno dei capostipiti del synthpop. Se oggi vi sembra una sigla dei cartoni animati non posso darvi torto, ma “Just Can’t Get Enough” ha spianato la strada al successo sconfinato di un sound che ha influenzato grandissima parte della musica del decennio. Sintetizzatori ovunque.
Che capelli. Lasciamo perdere, limitiamoci a definire impietoso il confronto tra l’immagine della band agli esordi con quella del 2014.

Oggi
I Depeche Mode hanno chiuso ufficialmente il decennio con il memorabile Violator, uscito proprio nel 1990. Un disco ancora fortemente di stampo synthpop, ma con le prime avvisaglie di cambiamento. L’ideale punto a capo, non solo al loro percorso ma a quello di tutta l’evoluzione musicale del periodo. “Enjoy The Silence” e “Personal Jesus” sono probabilmente i due pezzi più conosciuti dell’intero repertorio, oltre che due classici intramontabili in assoluto, “coverizzati” da un numero imprecisato di artisti. Dopo il punto e a capo, di solito si comincia un nuovo capitolo. Ed eccoci arrivati al 1993. Esce Songs of Faith and Devotion.
Soltanto tre anni dopo Violator, Dave, Martin, Andy e Alan riescono ad assorbire nel loro stile tutte le più importanti tendenze rock in circolazione. Si affidano ancora al loro storico produttore Mark “Flood” Ellis, figura chiave di tutta la musica degli anni 90. “Flood” ha appena prodotto Achtung Baby degli U2 e soprattutto sta aiutando a emergere l’ipnotico Industrial Rock dei Nine Inch Nails. La band ascolta con interesse i Nirvana, i Soundgarden, i Jane’s Addiction. E va in studio.
Il risultato è il manifesto della prima vera evoluzione di tutta l’elettronica anni 80, verso un orizzonte più strumentale, con chitarre distorte, batterie reali, cori e archi. Nonostante la tensione tra i membri del gruppo, che porterà Alan Wilder a lasciare i Depeche Mode durante il tour successivo e Andy Fletcher a soffrire di depressione, Songs of Faith and Devotion rappresenta la consacrazione definitiva di Dave Gahan e Martin Gore. Il primo come uno dei frontman più carismatici e riconoscibili del globo, pur avendo inciso le parti vocali di questo album nel mezzo di una tremenda dipendenza da eroina, il secondo come uno straordinario autore. Veri musicisti. La boyband di “Just Can’t Get Enough” non esiste più.
La forza del loro cambio di direzione è chiara fin dalla prima traccia. “I Feel You”, incentrata su un potente riff di chitarra, suona rock e rumorosa come non mai. “Condemnation” (traccia 3) prosegue la sperimentazione, lasciando il fan fedelissimo sempre più spiazzato. Si tratta di un pezzo cosparso di gospel, impensabile fino a pochi anni prima. Dave Gahan la considera la sua miglior performance di sempre.
“In Your Room” e “Rush” (traccia 6 e 8) sono due perle di chiara influenza Nine Inch Nails, ma “Walking in my Shoes” (traccia 2) è il momento migliore del disco. Se offro io, è uno dei pezzi più belli e importanti di tutto il decennio. È una canzone che ha precorso i tempi, il risultato sorprendentemente organico, melodico e intenso dell’integrazione tra l’elettronica anni ’80 e il grunge tipico degli anni ’90. Dal vivo, suona da brividi.
Ricordate la scorsa settimana, quando abbiamo parlato del sottile confine tra evoluzione e deriva? Questa è sicuramente evoluzione, che piaccia o no. L’incantesimo di chi ha vissuto l’era di Songs of Faith and Devotion non passa facilmente. A ventuno anni di distanza, i Depeche Mode continuano a fare il tutto esaurito ovunque vadano. Persino in Italia, anche se i ragazzini non li conoscono e i media ne parlano per due-tre giorni al massimo dopo l’uscita di un nuovo disco. Nostalgia degli anni ’90, una delle più forti di tutte.