Arrival è il film definitivo sugli alieni. Denis Villeneuve ha preso un genere inflazionato e ne ha tratto un capolavoro.

Per parlare di Arrival voglio partire dall’umore che mi ha accompagnato dopo averlo visto, rendendolo solo per un attimo preponderante rispetto ai suoi contenuti.

Immaginate di trovarvi in alta montagna. State camminando da ore, siete stanchi. Forse avete la febbre e non sareste dovuti partire. Tuttavia c’è una forza misteriosa che vi spinge, vi fa pensare che forse quella è la volta buona, nonostante tutto. Allora vi trascinate, scalate gli ultimi metri di salita. E arrivate in punta. Siete lì per il panorama e per apprezzare un animale rarissimo che non vi riesce mai di vedere: un maschio di aquila reale. Ma quello che vi si para davanti è più o meno questo.

Rimanete lì per molto tempo, in compagnia dei rumori della montagna. Vi abituate all’attesa, arrivate persino a goderne.

E la nebbia, d’un tratto, comincia a svanire. I suoni si fanno più chiari. Distinguete le strilla. È lui. La pazienza e gli sforzi sono ripagati. È un epifania. Avete avuto quello che sognavate da sempre. Avete coltivato il dubbio e contemplato l’ignoto nella nebbia. Poi un grido ha squarciato il cielo e ora vi sentite come liberati.

Questo è l’itinerario emotivo che io, innamorato di fantascienza, ho compiuto partendo dalla notizia dell’uscita del film fino a quando sono uscito dal cinema. Aspettavo da tempo un film che affrontasse la “questione alieni” esattamente nel modo in cui lo fa Arrival.

Proprio grazie a questo nuovo approccio, è un film che soddisfa i più sfegatati fan del genere, ma anche chi normalmente ripudia questo tipo di storie.

Arrival: trama e trailer

La storia di Arrival inizia quando dodici misteriosi oggetti provenienti dallo spazio atterrano sul nostro pianeta. La linguista Louise Banks (Amy Adams) viene messa a capo di una squadra per ottenere informazioni sugli eptapodi, gli alieni dai sette piedi che abitano i “gusci”. Si troverà costretta in una corsa contro il tempo in cerca di risposte, dove la posta in gioco, ovviamente, è il destino della razza umana.

Arrival è stato presentato al festival di Venezia lo scorso settembre, è nominato a 8 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura (tratta dal racconto “Storia della mia vita” di Ted Chang). Ha come protagonista Amy Adams ed è diretto da Denis Villeneuve, autore già di film bellissimi come La donna che canta e Prisoners, nonché del nuovo episodio di Blade Runner, in uscita nel 2017 (abbiamo raccolto tutti i sequel di prossima uscita qui). Una responsabilità non da poco, che ci fa capire quanto al regista canadese piaccia alzare l’asticella. In questo caso, lo fa in tre passi: riportare la trattazione alle domande fondamentali, riuscire ad abbinarvi un significato filosofico ma comprensibile, costruire delle immagini indimenticabili.

Prendiamoli uno alla volta.

Il concept più semplice: il giorno in cui arrivarono

Gli alieni tecnicamente non esistono, ma un giro sulla terra a seminare il panico se lo fanno sempre volentieri. Da quando la tecnica ha consentito al cinema di fare il bullo con le altre arti, per i suoi miracolosi “effetti speciali”, ci fanno visita molto spesso. Tanto che il pubblico generalista, ma forse anche il sostenitore più affezionato, si è rotto le scatole di rivederli. Troppe guerre dei mondi e troppi pochi incontri ravvicinati del terzo tipo (il film di Spielberg è quello a cui forse Arrival si ispira di più).

Dopo pessimi esempi di film fracassoni (uno per tutti: Indipendence Day?) e capolavori immortali tipo Alien, ormai gli alieni li conosciamo fin troppo bene. Se fossimo seduti intorno a un tavolo per discutere la trama di un film su di “loro”, ci sforzeremmo in tutti i modi di trovare nuove idee di raccontarli e strabiliare il pubblico. Non conosco le vostre abilità di sceneggiatori, ma probabilmente finiremmo con complicarci moltissimo la trama e la vita.

Il primo grande pregio di Arrival invece è affrontare il tema ripartendo dalle cose più banali, quelle a cui non si dava da tempo il giusto peso. Ad esempio raccontare gli alieni nascondendoli nella nebbia, anziché facendoli scendere a terra con nonchalance. Villeneuve li ha piazzati dietro un muro di vetro per rimettere la giusta distanza tra noi e loro, per obbligarci a riflettere.

A volte quando un argomento è trito e ritrito la soluzione è tornare dalla base. Le risposte alle semplici domande “cosa sono venuti a fare” e “che lingua parlano gli alieni” sono da sempre le chiavi per farci un grande film. Lo svolgimento della trama di Arrival non è altro che un umile tentativo di rispondere a queste domande. Concettualmente sarebbe stato perfetto se Villeneuve avesse addirittura evitato di fornire delle risposte – o se non le avesse palesate con le parole nel finale – ma poi ci siamo anche noi, il pubblico, che non siamo mai abbastanza sicuri di niente.

Il significato più alto: la memoria è una cosa strana

Il primo incontro tra umani e alieni torna quindi al centro della narrazione. La grandezza della storia però sta nell’abbinare significati complessi a questo spunto narrativo molto semplice. Come in alcuni dei migliori film del genere (2001 volte grazie Stanley) si parla del tempo, che ben si presta a divagazioni filosofiche e straordinarie teorie fantascientifiche. Dopo mesi di lunghe e faticose ricerche arriviamo a conoscere lo scopo sulla terra degli eptapodi: aiutare l’umanità, condividendo la loro lingua e il suo potere di cambiare il nostro concetto di tempo.

Siamo abituati a percepire il tempo in maniera orizzontale, come qualcosa che scorre inesorabilmente in avanti. Ma se invece avessimo la libertà di saltabeccare avanti e indietro con la mente? Se potessimo prendere delle decisioni in base a quello che vediamo nel futuro? È un’ipotesi affascinante che nel finale innalza molto il livello del racconto, e racchiude una scelta morale che fa riflettere: pur sapendo che morirà adolescente a causa di una malattia rara, Louise decide di avere lo stesso una figlia, Hannah (un nome palindromo, trovata geniale), piuttosto che non vederla esistere mai.

Sembra quasi paradossale: con questa storia siamo partiti affrontando le domande più semplici, ammettendo di non sapere. Ora invece stiamo parlando di dominare il concetto di tempo, di possedere la conoscenza più completa che si possa immaginare. Nonostante questo immenso potere, la libertà dell’uomo di accettare il proprio destino, rappresentata dalla decisione di Louise, vince ancora su tutto.

Ci sono giorni che determinano la tua storia al di là della tua vita. Come il giorno in cui arrivarono

L’immagine, la nebbia

La bellezza di Arrival, come abbiamo visto, sta nel “cosa” racconta. Ma è il “come” ad avermi sedotto. Prima di tutto, la pulizia visiva è incredibilmente rigorosa, in scena c’è solo l’essenziale e anche i dialoghi non eccedono mai. Di nuovo, in questa scelta riconosciamo l’intenzione di riportare le questioni “alieni” e “fantascienza” alla base, senza intralciare la trama con spacconate tipo enormi astronavi da guerra o città intere che esplodono, senza appesantirla con inspiegabili teorie spazio-temporali (ahia Nolan). Una sola location, più i falsi flashback. Fine.

La quasi totale assenza di luce è un’altra scelta azzeccatissima di Villeneuve per quanto riguarda la messa in scena: una patina di penombra grigia domina la fotografia di Arrival. La tendenza a azzerare la luminosità è talmente spinta che in alcune scene i neri finiscono per nascondere completamente alcune parti del corpo dei personaggi.

Metà Amy Adams ce la siamo persa

Siamo davanti a un film che non vuole farci vedere le cose chiaramente, non vuole sbatterci in faccia due alieni da quattro soldi, ce li vuole far sudare, li nasconde nella nebbia, vuole lasciare che ci interroghiamo su tutto.

E piuttosto che illuminarlo, Jeremy Renner lo facciamo blu

Proprio la nebbia è l’elemento più riconoscibile della fotografia. Compare nelle scene dentro i gusci, ma la sensazione è quella di vederla sempre presente, come se avvolgesse ogni scena. In più di un’occasione il protagonista della scena è l’unico ad essere a fuoco. Gli altri, anche se si trovano immediatamente dietro di lui, sono sfocati, irriconoscibili come lo sfondo.

Nulla è alla luce del sole. Ovvero: questo non è un blockbuster sugli alieni.

Il suono: odo un monolite

Una delle caratteristiche più interessanti del lavoro di Villeneuve è l’utilizzo degli effetti sonori e delle musiche, che negli ultimi tre film (Prisoners, Sicario, Arrival) sono state opera dell’islandese Jóhann Jóhannsson. Un assaggio da Sicario.

In quest’intervista su Deadline, il montatore del suono Sylvain Bellemare spiega che quando si è chiesto come potessero “suonare” gli alieni in Arrival, ha approcciato il suono stesso come un personaggio, che può definire la narrazione anche più di una persona in scena. Questo può dare l’idea della rilevanza che ha avuto nella lavorazione del film.

Il suono, parte cruciale del linguaggio cinematografico, è una sorta di visione subconscia del mondo. Un punto importante è stato il tentativo di creare in numerose sequenze un tappeto sonoro molto evocativo: una specie di vibrazione sinistra perenne, un modo per farci percepire costantemente la presenza degli alieni, come se l’intenzione ultima fosse quella di farci entrare sotto pelle lo straniamento dovuto al contatto con un mondo totalmente sconosciuto.

L’uso delle frequenze basse è cruciale in questo senso. Una sequenza visivamente molto forte come quella del primo incontro con gli eptapodi, non sarebbe stata la stessa cosa senza un’acustica del genere (posso linkare solo Spotify).

Anche l’inquadratura non è venuta malaccio

Nella sua intervista, Bellemare sottolinea anche la necessità di avere un suono terrorizzante almeno fino a metà film, perché esisteva per Louise la possibilità di trovarsi davanti a dei veri mostri, non dei simpatici  calamari. Seguire il ritmo dell’emotività della nostra protagonista, divisa tra un mondo che non capisce – quello dei militari, che costantemente le mettono pressione affinché raggiunga risultati tangibili – ed uno che non conosce affatto, era l’obiettivo principale del montaggio del suono.

Curiosamente molti degli effetti sono ottenuti mixando versi di animali. Le “voci” degli eptapodi sono fatte con suoni di cammelli e flauti Maori, mentre il mondo dentro ai gusci è costruito con suoni di balene e altre creature subacquee.

Il suono è uno strumento potente ma c’è differenza col rumore, che spesso viene utilizzato a Hollywood in maniera aggressiva, sparandolo nelle orecchie dello spettatore quasi per stordirlo. Come per dire “senti che casino, non ti preoccupare dei significati”.

In un mondo dominato dall’immagine, un regista che punta tanto su musiche ed effetti sonori, dedicandovi gran parte del proprio lavoro, è una rarità che dovremmo proteggere.

Dal monolite al guscio, siamo lì.

Cosa ci lascia Arrival

Per finire, come Arrival si inserisce nel mondo di oggi e cosa ci può insegnare. Ricorda il peso che va dato alle parole e l’attenzione che va posta su questo argomento in un‘epoca così interculturale. Da “arma” a “strumento” a “dono”, il misunderstanding è dietro l’angolo e può portare a scatenare una guerra.

Ma ricorda soprattutto l’importanza di porsi delle domande, di coltivare il dubbio, di avere la pazienza di non conoscere tutto subito. Proprio ora che, con l’era digitale, sembra tutto così facilmente accessibile.

Arrival è un film sugli alieni nuovo, nel messaggio e nell’estetica ultima modifica: 2017-01-30T18:20:13+00:00 da Alessio Rocco