Con la seconda stagione di Better Call Saul, Vince Gilligan si è definitivamente superato. Nemmeno lui, il creatore di Breaking Bad, poteva pensare di realizzare uno spin-off della serie più celebrata degli ultimi anni e ottenere un prodotto ancora migliore. E invece…
Fin dalle prime puntate mi sono chiesto perchè Better Call Saul mi piacesse più di Breaking Bad (e YURY lo aveva capito fin dalla prima stagione). Il ritmo, ecco perché.
Dieci episodi sono meglio di sedici, poche stagioni (avrei preferito solo due) le digerisco più veloce e più volentieri. Funziona, è rapido, è ben fatto, i personaggi sono una figata.
Mike è il solito vecchio impossibile, un Gandalf noir con due palle così e una calibro 9. Jimmy è un farabutto coi fiocchi e un cuore buono, non mette le mani nel sangue dello spettatore come quello psicopatico di Walter White; sa raccontare delle balle come si deve, sa tirare l’acqua al suo mulino, e assieme all’acqua lo spettatore e una donna in gamba come Kim Wexler, una che con tre parole riesce a mostrare più carisma e determinazione di quanto faccia quella segretaria fallita della moglie di Heisenberg in ottocento dialoghi.
Finalmente non ci sono ragazzini urlanti come espedienti per dare una tirata di freno a mano alla crime story, solo nonni che picchiano messicani con un terzo dei loro anni e si segnano le minacce ricevute che neanche i regolamenti di conti tra pastori sardi. I cattivi sono infami, i buoni sono infami. Tutti sbagliano e mostrano i lati peggiori della loro debolezza, a prescindere che sia perchè non hanno scelta, o perchè provano un gusto perverso nel trasgredire a delle regole autoimposte.
Stai incollato a guardare anche se non si vende droga, anche se i problemi spesso sono pagare l’affitto o decidere se farsi licenziare, invece che scalare le gerarchie della mala perchè quando facevi il professore ti prendevano in giro.
Stai lì davanti a guardare anche se sai già che non muore né Jimmy né Mike, che è un prequel, che Saul sono due stagioni che appare in bianco e nero a vendere dolcetti sotto copertura dopo quanto successo in Breaking Bad. Proprio questo espediente di mostrare all’inizio come andava a finire la storia dell’episodio viene dalla serie ammiraglia, e funzionava piuttosto bene. Ora sai pure che non c’è nulla da temere, eppure assisti e temi, perchè questi sbagliano, o vincono, in modi che anche se tu spettatore, per grazia di telecamera, sai più di quanto sappiano loro, non ti saresti neanche immaginato. E se te lo sei immaginato giusto sei un pervertito e fatti curare.
Perché Better Call Saul funziona?
Sceneggiatura impeccabile, fotografia efficac e discreta. Ci sono ancora un po’ di soggettive strambe e sperimentali da regazzetti con la GoPro appena ricevuta a Natale, ma molte inquadrature hanno una profondità di campo che farebbe sorridere Orson Welles. Aggiungici delle storyline particolari e prive d’azione come la scalata al riconoscimento di Kim Wexler o la patologia inesistente di Charles McGill legata a doppio filo alle azioni del fratello imbroglione, e hai un Breaking Bad che non ti ispira l’omicidio senza per forza farti immedesimare nei personaggi.
Grazie a Breaking Bad e a tutto il tempo che si è preso per narrarci i personaggi che ritroviamo qui: è merito di questa eredità se Better Call Saul può svolazzare su una storia più leggera e al contempo riuscire, come una storia di cui non si sa la fine, a farti caricare una nuova scheda di Nowvideo. O farti andare su Netflix, dipende dalla tua etica.