La street art è stata tradita? Usurpata? Cosa ci insegna la cancellazione da parte di BLU di tutte le sue opere bolognesi? Per restituire il senso originario alle arti murali e difenderle da ogni etichettatura, bisogna conoscere e vivere l’ambiente in cui sono nate.

13 aprile 2016, Bologna

In via Zanardì sta succedendo qualcosa, c’è un assembramento di persone che, rullo alla mano, ingrigisce i muri. C’è chi penserebbe a una jam, ma perché il grigio invece che il bianco? Semplice: non è una jam.

BLU, forse il miglior street artist italiano in circolazione da più di 15 anni, sta cancellando insieme a i ragazzi degli spazi occupati XM24 e Crash, tutte le sue fantastiche opere una dopo l’altra, metro dopo metro, ricordo dopo ricordo.blu-bologna2

In città da un po’ di tempo il tema della street art e della sua nuova concezione ‘borghese’ sta scaldando non poco gli animi per una mostra dal nome “Street Art. Banksy & Co. L’Arte allo stato urbano“. La rassegna, finanziata dalla Fondazione Carisbo, nasce dalla superflua idea di voler etichettare e staccare – nel vero senso della parola – opere dai muri cittadini con la scusa di ‘preservarle’ dall’abbandono.

La mostra ha l’inutile scopo di trovare un senso all’arte di strada, come se la strada fosse un museo, senza tener conto di tutto quello che c’è stato prima dei muri ciechi disegnati, prima delle opere dei grandi street artisti ma sopratutto, ‘vandalizzando‘ il writing come inutile e portatore di degrado.

Le origini e la prostituzione attuale dell’arte urbana

Siamo negli anni ’90 e l’esplosione dell’hip hop (americano prima, nostrano poi) nel movimento underground cambia tutte le regole in gioco, perché se prima nelle città italiane i nostri muri erano prevalentemente coperti di scritte politiche (molte di esse eseguite con vernice e pennello), legate al calcio o dai sempre verdi messaggi d’amore, a un certo punto qualcosa cambia.

Iniziano a nascere gli spazi occupati, il rap tra i giovani si fa spazio con immagini di periferie colorate dai graffiti e testi forti e sinceri; inizia a formarsi un sottocultura che cambierà per sempre il volto delle di tutte le metropoli e non solo del mondo: nasce il writing e con esso i suoi discepoli, le crew. Giovani carichi di adrenalina e con la testa pervasa dal desiderio di lasciare il proprio segno invadono le nostre metropolitane, i nostri bus, i muri ciechi, i bagni pubblici, i tetti, le scuole o qualsiasi angolo dove un pantone, della vernice o delle ‘bombole’ possa lasciare le proprie tracce.

Quella che oggi è a gli occhi di tutti universalmente conosciuta come street art, non è nient’altro che l’evoluzione di quello che ancora oggi è il writing, delle tag, dei boombing o dei treni graffitati, per capirci meglio.

Negli Stati Uniti da un po’ di tempo la commercializzazione dell’arte urbana ha portato ad una ‘prostituzione’ della scena, ribaltando tutte le idee e azzerando ogni tipo di concetto pregresso. Spesso ormai quando si parla di street art si tende a generalizzare uniformemente ogni tipo di artista o tecnica, appiattendo il tutto a una semplice colorazione di una superficie.

Nel 2016 possiamo dividere in due grandi categorie il fenomeno del muralismo: da una parte gli artisti che hanno iniziato il loro percorso attraverso il writing, quindi esplorando e vivendo tutte quelle situazioni che l’hanno messo a stretto contatto con il mondo dell’underground e tutto ciò che ne consegue; dall’altra abbiamo gli artisti/grafici, coloro che vedono quest’arte muraria più come un modo per creare bellezza più che per lasciare un messaggio.

Le due correnti della street art

È esattamente in questa divisione che sta la nascita e il futuro del movimento della street art, dove da una parte sta tutta quell’innumerevole schiera di artisti della vecchia scuola (e non solo) che hanno ‘partorito’ le loro opere con l’idea di far pensare prima e ammaliare dopo; mentre dall’altra c’è un secondo plotone artistico, formato da persone che hanno sì grandi capacità tecniche, ma che forse hanno la grande pecca di ricercare il bello e poco altro.

Agli inizi degli anni 2000, a Genova c’era gran fermento artistico in un luogo che per molti ragazzi della mia età è stato di grande stimolo. Il vecchio Laboratorio Sociale Buridda in via Bertani (la nuova occupazione è in corso Montegrappa) ha rappresentato per le neonata street art un luogo da rispettare, un luogo dove se per caso riuscivi a lasciare il tuo segno voleva dire che spaccavi davvero: per farvi un’idea, da lì sono passati Blu, Etnik, Etam Cru, Macs, Fijodor, Aryz, Peeta, Pixel Pancho e moltissimi altri.

A Genova, l’evento che annualmente portava stile in città era ILLEGAL ARTS, il tutto accompagnato da Subliminal Art, un magazine davvero interessante. Perché ho voluto aprire questa piccola parentesi nostalgica? Perché oggi è questo l’approccio che manca tra tutti i vari opinionisti, curatori d’arte e organizzatori di festival di street art, è l’attitudinecome mi piace chiamarla.

La street art per essere spinta e capita fino in fondo va vissuta, ma ancora prima bisogna viversi, capire e rispettare il writing, le crew, le jam, le tag e tutte quelle maniere che ha ogni individuo per potersi esprimere.

A futura memoria,
c’è dell’arte dentro ognuno di noi.

Che fine ha fatto BLU? L’epilogo morale della street art ultima modifica: 2016-04-14T18:44:43+00:00 da Andrea Pioggia