Da quando gli esseri umani hanno cominciato a padroneggiare i processi industriali per aumentare il proprio benessere, c’è chi, come il nostro pianeta, ha dovuto pagarne le conseguenze. Alcuni dei più impressionanti disastri ambientali firmati dall’uomo.
Giovedì 5 novembre 2015 verrà ricordato per la più grande catastrofe ambientale che il Sud America abbia mai visto. Due dighe appartenenti alla Sanmarco Mineração, contenenti scarti minerari estremamente tossici, hanno prima ceduto e poi riversato tutto il loro contenuto nel Rio Doce, fiume che si estende per 853 km, sfociando nell’Oceano Atlantico.
I 60 milioni di metri cubi di sostanze inquinanti hanno originato dei fanghi ferrosi di colore rosso brunastro, contaminati da svariati metalli pesanti, come cromo, piombo e arsenico, che in poco tempo hanno percorso ben 600 km per terminare il proprio viaggio nell’Atlantico, dove hanno già coperto 70 km di spazio costiero.
Non c’è bisogno di dire che l’ecosistema intorno al Rio Doce, maggiore corso d’acqua del sud-est del Brasile, è praticamente distrutto. Molte specie endemiche rintracciabili solo in quel determinato habitat sono sparite per sempre, con tanti saluti alla biodiversità.
Paul Rosman, esperto di ingegneria costiera, ritiene i danni sull’ambiente marino trascurabili, ipotizzando inoltre che il Rio Doce possa tornare a vivere nel giro di 5-6 mesi. Greenpeace, dall’altra parte, vede il bicchiere mezzo vuoto, non essendo così certa che i tempi stimati siano tanto brevi, nonostante la resistenza e la resilienza di questi ambienti: la capacità di resistere a tali catastrofi e la possibilità di cancellarne le conseguenze sembrano criticamente intaccate.
Alla voce di Greenpeace si uniscono quelle, più infuriate che sdegnate, di chi ha perso parenti e amici, la casa, o la propria fonte di sostentamento, come gli agricoltori o i pescatori di zona, per i quali il Rio Doce era “vita”. Per non parlare, sempre meglio ricordarlo, delle perdite da un punto di vista ambientale. Aree protette e habitat sensibili sono stati letteralmente soffocati da colate di fango tossico.
Bhopal, la “città dei sette laghi”
Non è la prima volta che un incidente del genere provoca simili danni all’ambiente. Nel 1984, a Bhopal, una città indiana chiamata anche “città dei sette laghi” per la sua ricchezza di acque interne, fu investita da una devastante nube tossica liberatasi da una fabbrica di pesticidi della Union Carbide India Limited.
Oltre ad un numero impressionante di morti provocate dall’isocianato di metile, circa 15 mila secondo alcune stime, ci furono danni permanenti all’ambiente circostante, tanto che ancora oggi non c’è stata una vera e propria bonifica dell’area da parte del governo indiano. Le numerosissime falde acquifere che servono i residenti della zona risultano ancora inquinate dai rifiuti tossici della fabbrica, che a più di un trentennio di distanza è ormai un vecchio rudere arrugginito.
La Exxon Valdez
Nel 1989, un grande classico dei disastri ambientali di matrice umana, una bella superpetroliera incagliata in una insenatura del golfo di Alaska, più precisamente nello stretto di Prince William.
Stiamo parlando della tristemente nota Exxon Valdez, un bestione da 30,000 tonnellate per 300 metri di lunghezza, che trasportava 210,000 metri cubi di petrolio, disperdendone però 42,000 nell’ambiente colpendo quasi due chilometri di coste e uccidendo 100,000 organismi in pochi giorni.
Il lago d’Aral
Il record assoluto per velocità di distruzione assoluta l’uomo lo registra con il lago d’Aral, un lago salato tra Kazakistan e Uzbekistan che fino al 1960 aveva una superficie di ben 68,000 km²: a oggi, ne rimane poco più di un decimo.
In 50 anni, il quarto lago più vasto del nostro pianeta è stato ridotto a una pozza. Questo grazie ai piani del regime sovietico, secondo cui gli affluenti dell’Aral potessero e dovessero essere sfruttati per nuovi scopi, come ad esempio l’irrigazione dei campi. Solo nei primi 12 mesi, la diminuzione di apporto idrico e la forte evaporazione fecero ritirare l’Aral di 20 cm, fino a ridurlo alle condizioni odierne, alterando anche il clima di tutto il territorio circostante.
Un’isola di rifiuti
Se poi vogliamo proprio essere vanitosi, noi uomini siamo anche riusciti a dare alla luce un nuovo continente, il Great Pacific Garbage Patch, una vera e propria isola di spazzatura che si trova nelle acque del Pacifico, tra il Giappone e le Hawaii: potrebbe avere un’estensione variabile tra i 700,000 km² e i 10 milioni di km². In quest’area si ipotizza la presenza di 100 milioni di tonnellate di rifiuti, per lo più non biodegradabile, ovviamente.
La mastodontica isola di ciarpame è frutto dello sconsiderato smaltimento dell’immondizia in mare. La responsabilità di tale accumulo indiscriminato è attribuita a un forte e persistente vortice marino, ormai chiamato Pacific trash vortex, che come una calamita attira a sè tutta la spazzatura marina. Alcuni studi hanno mostrato come i polimeri a cui si riduce la plastica in mare in quella zona superino per quantità perfino lo zooplancton, provocando dei danni a tutta la rete trofica.
I disastri ambientali che potremmo mostrarvi sono ancora molti, da quello di Love Canal fino al cimitero elettronico di Guiyu in Cina. La lista non accenna a voler essere interrotta. Oggi il Brasile, domani chissà, siamo così bravi nello spezzare gli equilibri del nostro pianeta, perché fermarci?