Everest ha aperto la 72°Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Accolto con freddezza dalla critica, è un film tratto da una storia vera (e da un libro di Jon Krakauer), che ritrae una montagna splendida e spietata, dove l’uomo tenta di varcare ogni limite. Ci sono buone ragioni per rivalutarlo.
Dopo Gravity, un altro potenziale blockbuster hollywoodiano apre la mostra del cinema di Venezia. Si tratta di Everest, tratto dal romanzo Aria Sottile di Jon Krakauer, uno dei sopravvissuti alla disastrosa spedizione che nel 1996 portò alla morte di nove alpinisti, tra cui due delle migliori guide in circolazione.
In quanto a premi, non avrà la stessa fortuna del film di Cuarón (quest’anno presidente di giuria), ma merita comunque grande rispetto. Anche grazie a un cast di stelle, che comprende Jason Clarke (il migliore), John Hawkes, Emily Watson, Josh Brolin, Keira Knightley e Jake Gyllenhaal.
Vediamo cosa ha funzionato e cosa invece ha indotto la critica a freddare gli entusiasmi.
Everest: trailer e commento
La pellicola di Baltazar Kormakur parte da una cornice scenografica straordinariamente spettacolare, uno dei luoghi più pericolosi al mondo, dall’uomo che tenta di superare ogni limite e dalla consapevolezza di essere di fronte a un film “tratto da una storia vera”. Tanto basta a mandare in brodo di giuggiole i fan del grande cinema di avventura. Everest si dimostra infatti un film molto “da pubblico”, poco “da critica”.
Tra i difetti che gli vengono imputati spiccano una storia troppo prevedibile, dove si capisce da subito chi non ce la farà, una certa dose di retorica e la superficialità nella gestione della scrittura: il personaggio di Gyllenhaal, tra i migliori attori in circolazione, è effettivamente poco valorizzato, e forse l’eliminazione di qualche co-protagonista avrebbe giovato alla buona riuscita del film.
La meraviglia della natura e la messa in scena della realtà
Che Everest non avesse lo spessore della regia e della scrittura di Birdman (film inaugurale al Lido l’anno scorso) era piuttosto ovvio, ma la tensione che vuole trasmettere si raccoglie benissimo. Ti inchioda alla poltrona, perché i suoi protagonisti sono alla completa mercé della natura: in cerca di riscatto, in fuga dalla propria vita o semplicemente alla conquista di un sogno. Appesi a una corda, sospesi sopra un crepaccio senza fondo, accecati dall’obiettivo, si spingono oltre ogni limite.
Forse quello che rende realmente coinvolgente quest’esperienza è la visione dell’uomo che ne emerge, molto pessimistica: si parte delusi, si va alla ricerca di qualcosa, si perde di vista tutto pur di raggiungerla. Fare il tifo perché l’esito di questo percorso sia positivo è la cosa più naturale del mondo.
Everest non è un prodotto vuoto e ignorante. Trasmette alla grande la potenza distruttiva dell’esperienza vissuta nel fisico e nella mente dagli alpinisti. Paura, speranza, rabbia, e di nuovo speranza si susseguono con forza. Arrivano. Come l’adrenalina e l’eccitazione di Rush, o l’angoscia e le inquietudini di Gravity, si potrebbe scomodare perfino Titanic. L’impatto è quello, la fattura è inferiore.
Ma lunga vita a questo cinema. La meraviglia della natura e la messa in scena della realtà a volte sono insuperabili. Dal 24 settembre in sala.