Negli ultimi giorni della 73esima Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia abbiamo visto diversi lungometraggi fuori concorso e un paio di titoli in corsa per il Leone. E poi tutti cortometraggi. Vi raccontiamo il migliore, “Stanza 52” dello sceneggiatore Maurizio Braucci.
Con il Leone d’oro a The woman who left di Lav Diaz, regista filippino spesso osannato dalla critica, si è chiusa la 73esima mostra del cinema di Venezia. Un film struggente lungo ben 226 minuti. Dopo l’importante premio raccolto, speriamo che abbia qualche possibilità di uscire in sala.
Gli altri film a Venezia negli ultimi giorni della mostra
Dopo Jackie, abbiamo piluccato tra i film proiettati negli ultimi giorni della mostra. Ci siamo imbattuti in cose assurde, tipo The Bad Batch, thriller/horror/splatter dalle atmosfere post apocalittiche copiate (male) da Mad Max: Fury Road. C’erano dei cannibali che si pappano la gente nel deserto del Texas, Jim Carrey in versione barbone e Keanu Reeves in versione guru spirituale. Ma soprattutto c’era, nei panni della protagonista Samantha, Suki Waterhouse, che la regista iraniana Ana Lily Amirpour ha definito “una gladiatrice e non una partygirl”. Aforisma calzante per il suo personaggio, una bionda perennemente incazzata che sopravvive all’amputazione di un braccio e di una gamba, fugge su uno skateboard nel deserto a 50 gradi e infine si innamora di Jason Momoa, che solitamente arrostisce i passanti, ma stavolta s’intenerisce quando Samantha gli riporta la figlioletta smarrita.
Passati i deliri di questo macello di marca Netflix (che si è preso il premio speciale della giuria!), abbiamo virato sul documentario Voyage of time di Terrence Malick (La sottile linea rossa, The Three of Life). “Documentario” con la d minuscola, perché nello svarione del misterioso Terenzio, che ritrae la vita dal big bang ad oggi, c’è nulla di divulgativo. Un film che ambisce altissimo ma è, di fatto, un semplice scorrere di immagini naturalistiche spettacolari. Un bignami dell’evoluzionein iMax, un godere per gli occhi ma non per la mente, e a poco servono i commenti poetici e filosofici narrati fuori campo da Cate Blanchett.
Documentario per davvero è invece El vendidor de orquideas, film autobiografico sul pittore Oswaldo Vigas, padre di Lorenzo Vigas, regista Leone d’oro 2015 con Ti guardo (se avete uno stomaco allenato ai drammoni, recuperatelo). Dipingeva, cioè no dirigeva, tu guarda, Lorenzo Vigas. Il film, triste e simpatico allo stesso tempo, segue il viaggio della famiglia Vigas alla ricerca di un dipinto perduto, El vendidor de orquideas appunto, risalente all’adolescenza del pittore. Un’ora e poco più che rivela il passato di un artista dalla battuta facile ma anche dall’animo tormentato. Uno scavo nell’origine primordiale della sua vocazione creativa.
Tra i film italiani ci siamo beccati l’ultimo in concorso, Questi giorni di Giuseppe Piccioni (non siamo arrivati in tempo per Piuma, che ci pareva molto promettente). Filippo Timi e Margherita Buy sono le chiocce del cast, dove le protagoniste sono quattro giovani attrici: l’esordiente Caterina Le Caselle, Laura Adriani, Maria Roveran e Marta Gastini, che nonostante i soli 26 anni ha già lavorato con Anthony Hopkins ed è protagonista de I Borgia. La trama racconta quattro adolescenti (tema di tutti i film italiani al lido) legate da sentimenti taciuti e non corrisposti, pronti ad esploder durante un improbabile viaggio verso Belgrado. Non è certo un film che brilla per originalità, ma ha ricevuto un’accoglienza eccessivamente negativa.
The Journey del britannico Nick Hamm è stato il film che ci è piaciuto di più. Nel 2006, il fervente predicatore protestante Ian Paisley e il repubblicano irlandese Martin McGuinness sono stati realmente costretti a fare un viaggio di un’ora e mezza nella stessa auto, obbligati a trovare un accordo per governare insieme, mettendo fine alla sanguinosa lotta politica in Irlanda del Nord. Piccolo particolare: i due non si erano mai parlati. Il significato di questa commedia impegnata punta molto in alto: le atrocità del terrorismo negli ultimi anni hanno glorificato gli estremismi, legittimando ed eleggendo l’intransigenza a modus operandi del mondo. Questa storia, come dichiarato da Hamm, vuole essere una risposta a questo tipo di etica. Comunque, due attori britannici di grande esperienza, quasi un’unica location sono un vademecum eccellente su come costruire un successo assicurato. Quasi dieci minuti di applausi strameritati.
Stanza 52, il bellissimo corto di Maurizio Braucci
Tra i corti presenti in concorso nella sezione orizzonti, ci ha colpiti molto positivamente il film Stanza 52 di Maurizio Braucci. Un esordiente atipico, perché già attivo nell’industria cinematografica da parecchi anni come sceneggiatore (Gomorra, Reality, Pasolini, Bella e Perduta).
In un lussuoso albergo di Napoli, Serena, una stramba cameriera cinquantenne che malgrado una vita difficile non ha perso il sorriso, interroga la stanza sul destino che il proprio defunto marito ha avuto nell’aldilà. E la stanza, magia, sembra risponderle. Ne nasce un dialogo surreale, durante il quale Serena racconta i propri e gli altrui peccati e affronta il tema della compassione.
Prodotto dall’Avventurosa di Pietro Marcello insieme a Rai Cinema, è un corto capace di comunicare il pensiero del suo autore in maniera leggera e aggraziata, modalità non assolutamente scontata in questo tipo di prodotti. Hemingway, del resto, diceva che i racconti brevi sono “come dei pugni in faccia“. E a giudicare dagli altri corti che abbiamo visto – tra stupri, aborti, pestaggi e tragedie varie – lo scrittore è stato preso piuttosto sul serio ultimamente. Stanza 52 è invece abile nel far passare chiaramente il proprio messaggio senza ricorrere al dramma nudo e crudo. Ed è anche la dimostrazione di come si possa raccontare moltissimo con mezzi ridotti (una stanza, un’attrice, un tema forte), elevando una situazione quotidiana con la fantasia, riempiendola di linfa vitale. Forse non lo vedrete mai – i corti dei festival sono quasi irreperibili online – ma questo accade spesso con i film provenienti dei festival. Il caso di Stanza 52, più di ogni altro lungometraggio che abbiamo visto, sarebbe davvero un peccato.
“Spesso non riusciamo a perdonare a noi stessi né agli altri perché lo dimentichiamo. Ho voluto raccontare questo tema filmando sempre da vicino l’attrice per mettere in luce il duro lavoro del personaggio e i suoi sentimenti di pietà e di speranza malgrado il dolore che la vita può dare” (Maurizio Braucci)
Dopo l’edizione 2015 – quella di Danish Girl, Spotlight e Ti guardo – anche nel 2016 vi abbiamo raccontato alcuni dei migliori #filmdalfuturo direttamente dal Lido. Al prossimo festival!