Fino all’8 febbraio 2015 a Palazzo Ducale di Genova sarà esposta la mostra dedicata a Frida Kahlo e Diego Rivera, i due più famosi artisti messicani del Novecento che hanno influenzato e influenzeranno ancora generazioni di artisti naif e soprattutto hipster. Vi racconto perché.
Sono andata a vedere la mostra della signora Rivera due volte, poiché non ero sicura di averla capita bene. Sono andata la prima volta a Roma alle Scuderie del Quirinale e già da quella prima mi ero chiarita cosa NON fosse lei: non era una femminista, non era un esempio di indipendenza, non era tecnicamente una fantasmagorica pittrice e per sua stessa ammissione, davanti ai suoi quadri è più facile rimanere sconvolti che affascinati.
Era più simile a me di quello che credessi; era una donna che dipingeva l’interno di una donna, Frida Kahlo era normale. Ne sono uscita con un libro dedicato alla sua vita, alla vita in generale, e con la cover del mio telefono cambiata (ok, bravi ragazzi del marketing, mi avete fregata ancora, ma voi e quelli del dentifricio total white non mi avrete di nuovo).
Così sono andata una seconda a Genova, per capire cosa ci fosse che non mi tornava, e mi sono trovata scocciata dai cambiamenti rispetto alla prima; la mostra è un continuo confronto tra i due, Frida e Diego, inscindibili ma non confrontabili, se non in rare e sensibili occasioni mai colte dai curatori. Per quanto questa seconda volta fosse più difficile concentrarsi, ho scoperto che cosa mi ha sempre colpito tanto in lei: Frida era un’hipster, che cazzo.
Hipster intesa nel senso moderno del termine, un personaggio che non lasciava nessun dettaglio al caso, partendo dai tanti anelli indossati su una mano sola, a turno, fino ad arrivare a un finto trasandato (dei peli) passando per una finta sciatteria negli abiti che non sono quelli della nonna, ma al contrario accuratamente studiati per nascondere i suoi difetti fisici (e no, non parliamo di cellulite) ed esaltare il suo orgoglio d’appartenenza a un gruppo, troppo semplice e troppo diverso da tutti gli altri gruppi.
Inoltre la sua grande eredità di capolavori include numerosissimi autoritratti e un’intera serie di fotografie che la ritraggono in ogni momento della giornata (ho amiche su Facebook che lasceranno più o meno la stessa quantità di testimonianze ai posteri che esumeranno i loro profili tra cent’anni.) Il modo in cui Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderon e suo marito, Diego Rivera “vivevano la scena” del tempo, frequentando politici, artisti, attori e personaggi famosi, sembra il frutto di un progetto artistico costruito scientificamente, soprattutto in Frida, nella sua urgenza di urlarsi viva, forte e spiccata come la locomotiva di un treno, della stessa forza di cui necessitava per sconfiggere almeno per qualche ora la Pelona, la cagna spelacchiata, la morte che fin da ragazza danzava attorno al suo letto.
“Quel 17 settembre 1925, la Morte mi ha fissato negli occhi, ha osservato il mio corpo nudo, insanguinato, coperto di polvere d’oro, e quando stava per protendere le sue braccia verso di me…ho lanciato quell’urlo che non poteva uscire dalla bocca di una moribonda, un urlo di rabbia un urlo di amore per la vita che non volevo abbandonare a diciott’anni, ho urlato il mio “¡Viva la Vida!” ,e la Pelona, assordata, è rimasta stupefatta almeno quanto i vivi che mi si accalcavano attorno”
(dal libro di Pino Cacucci “¡Viva la Vida!”)
Il padre la definì a Diego, suo prossimo sposo, una “non tanto bella e con un mostro dentro“. Eppure quel grido di vita che nascondeva tra le viscere pareva affascinare tutti gli uomini che avessero a che fare con lei, dagli eminenti politici come Leon Trockij ai fotografi di star del cinema, come Nickolas Muray che di tutte quelle che si era fatto (tra cui ricordiamo Marilyn Monroe), solo con lei aveva desiderato il matrimonio. Ma Frida amava, nonostante tutti i tradimenti e il dolore procurato dai distacchi di lui, il suo Diego; la sua ossessione, malattia e medicina, deserto e pioggia, sangue e carne. Anche Trockij in un certo momento spera di poterla avere tutta per sé.
“…e tu, Leon…Hai davvero creduto di avere un simile potere? Povero illuso. Tu non sai niente di me. Sono io che decido se voglio lasciarmi portare via. Deciderò io persino come e quando lasciarmi portare via la vita, figuriamoci se tu avresti mai potuto portarmi via a Diego!”
(dal libro di Pino Cacucci “¡Viva la Vida!”)
La Kahlo ha fatto del proprio essere un’opera d’arte dipingendo i suoi quadri con pura linfa vitale, quella che riconosciamo tutti anche se non sapiamo che colore abbia, quella che ci lascia sconvolti, scoperti e improvvisamente nudi in mezzo a una sala gremita di gente.
Ecco cos’era che non mi tornava.