Ecco cosa ci lascia la cinquantasettesima edizione dei Grammy Awards, gli Oscar della musica relativi al 2014. Senza prendere queste nomine per oro colato (non sareste appassionati di musica), vediamo che spunti si possono trarre dalla cerimonia di quest’anno.

 

Facciamo subito chiarezza. I Grammy Awards, i più alti riconoscimenti mondiali a livello musicale, non possono stabilire quali siano le migliori canzoni e i migliori artisti, semplicemente perché nessuno lo può fare. Come e più che per gli Oscar, o con gli Emmy Awards della TV, la musica non ammette giudizi oggettivi. E oltre tutto questo, da qualche anno a questa parte per essere candidato ai premi principali sembra essere necessario aver venduto tantissimi dischi.

Cosa c’è da salvare allora, direte voi. C’è che le categorie di premiati sono talmente tante da rendere impossibile non scoprire qualcosa di completamente nuovo o di particolarmente sfizioso, oppure di sentir crescere la curiosità di approfondire un nome già sentito ma mai ascoltato, per farsi un’idea se quell’artista o quella band meritasse la nomination o addirittura il premio. Vi porto un esempio a caso: è stato grazie all’edizione 2012 che ho ascoltato per la prima volta una delle mie canzoni preferite di sempre, cioè Holocene di Bon Iver, negli ultimi Grammy in cui per essere nominati per “canzone dell’anno” non era fondamentale scrivere commercialate. Vediamo chi è uscito vincitore dalla cerimonia di domenica scorsa e chi invece merita di essere approfondito.

Partiamo dall’assoluto trionfatore della serata, l’inglese Sam Smith. Dopo una fruttuosa collaborazione con il producer inglese Naughty Boy, per cui ha prestato la voce nella hit “La La La”, il cantautore classe 1992 ha trovato uno straordinario riscontro da pubblico e critica con il primo album In The Lonely Hour, uscito verso la fine di maggio 2014 e premiato domenica come miglior disco pop. Il terzo singolo estratto, “Stay With Me”, ha raggiunto la top ten nella classifica vendite in più di venti paesi diversi, tra cui l’Italia. Impossibile non riconoscere i motivi del successo del pezzo, che ha vinto il Grammy per canzone dell’anno e registrazione dell’anno nella versione con Mary J. Blige, superando tra gli altri l’insidiosissima Meghan Trainor con la sua “All About That Bass” e “Take Me To Church” di Hozier. Smith ha poi calato il poker, portandosi a casa il premio come migliore artista rivelazione. Ecco la performance del suo cavallo di battaglia, con Mary J. in formissima, eseguita proprio domenica sera tra una premiazione e l’altra.

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Mi è molto, molto più caro il prossimo premiato. A dirla tutta, la sua vittoria ha per un attimo ha rischiato di farmi perdere in facili entusiasmi, rivalutando la valenza oggettiva dei Grammy. Il titolo di album dell’anno (e ovviamente album rock dell’anno, più il premio per i tecnici del suono che ci hanno lavorato) se lo porta a casa Beck, con la sua dodicesima fatica, Morning Phase. Non Beyoncè, vincitrice annunciata con l’album omonimo. Apriti cielo. Kanye West, come è ormai solito fare durante i tanti galà a cui partecipa, esprime il suo disappunto disturbando la consegna del premio e parlando poi di ingiustizia nel post-cerimonia. Quindi piovono stucchevoli accuse di razzismo sulla giuria, la stessa giuria che ha assegnato alla compagna di Jay-Z 3 Grammy per le categorie R&B facendola arrivare a quota 20 in carriera. Quanti discorsi inutili. Beyoncè ha un po’ abbandonato la vena pop per provare a fare un disco più improntato alla super produzione e alla ricerca di sentieri alternativi. Riuscendoci. Non a caso, in Italia non ha trovato lo stesso successo avuto con le super-mega-hits trasudanti commercialità tipo “Crazy in Love”. Beck, dal canto suo, ha fatto un disco splendido sotto tutti i punti di vista, toccando un nuovo apice nella sua incredibile carriera trentennale. L’unico scandalo, in questa faccenda, è quanto sia meno conosciuto di Beyoncè. Con buona pace di Kanye West.

Se parliamo di artisti sottovalutati, mi è difficile non pensare a Jack White. Il fatto che sia famoso più che altro per “Seven Nation Army” (per carità, bellissima, ma un pochetto inflazionata) è piuttosto triste. Con “Lazaretto”, canzone vincitrice del Grammy per miglior performance in un pezzo rock, il co-fondatore dei White Stripes ha riscritto le regole del garage rock, battendo il record mondiale di velocità di pubblicazione. Il brano, in una versione live diversa da quella studio diffusa due giorni dopo, è stato registrato, masterizzato e rilasciato al pubblico nel giro di 4 ore, il 19 aprile scorso. Un pezzo che riflette le caratteristiche del disco, anch’esso intitolato Lazaretto: nevrile, imprevedibile, tirato, rumoroso e a tratti elegantissimo. Non lontano da una sorta di manifesto di ciò che Jack White vuole essere in musica. Menzione d’onore per “Do I Wanna Know?” degli Arctic Monkeys, che sarebbe stata un’altra degnissima vincitrice. Grida vendetta, invece, anche solo l’esclusione dalle nomination dei Royal Blood.

E nomi nuovi? Uno su tutti, St. Vincent, stage name di Annie Clark. Una ragazza dell’Oklahoma che dopo tanti anni di gavetta musicale sembra aver trovato una formula vincente. Il suo disco omonimo ha trovato un gran numero di estimatori tra i critici, colpiti dalla stravaganza e dall’originalità delle scelte sonore. Una delle più grandi sorprese dei Grammy di quest’anno, da cui Annie è uscita con il premio di miglior album alternative. Attenzione a non perdere di vista le interessantissime idee di St. Vincent facendosi distrarre dall’orecchiabilità dei ritornelli e dalla forte componente visual, che si evince chiaramente dai suoi video e nei live. Ora, non escludo che in poco tempo, dopo una discreta cifra di ascolti, potrei rimangiarmi quanto appena detto. Ma di sicuro in questo momento sono pericolosamente intrigato.

Chiudiamo con una conferma e una piccola polemica sul Grammy per miglior album di elettronica. Il ritorno sugli scaffali dei pochi negozi di dischi rimasti da parte di Aphex Twin è senz’altro una buona notizia. Ma non vorrei che proprio come l’anno scorso, con l’anticipatissimo Random Access Memories dei Daft Punk a essere premiato in luogo dell’irripetibile A Color Map of the Sun di Pretty Lights, anche in questa edizione l’eccitazione del ritorno del mitico Aphex non abbia un po’ oscurato l’enorme while (1<2) di Deadmau5. Detto questo, Aphex Twin resta un eroe, e il suo ultimo disco Syro è una figata pazzesca. Ma in fin dei conti, chissene frega. Prendiamo il verdetto dei Grammy come va preso, cioè come un motivo per riascoltarceli entrambi.

Grammy Awards 2015, i vincitori ultima modifica: 2015-02-11T19:39:54+00:00 da Mattia Cutrone