Uno sguardo freddo e spietato sulla società americana attuale. La demolizione metodica, asettica e visivamente violenta dei concetti cardine di “famiglia” e “felicità”. Tutto questo è Happiness – Felicità. Un film del 1998 di Todd Solondz vincitore a Cannes del premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica.

 

Se vi siete appassionati e commossi guardando La ricerca della felicità di Gabriele Muccino, NON guardate questo film. Se siete fan della classica commedia americana dove si raccontano le disavventure della tipica famigliola modello, che dopo infinite peripezie raggiunge lo stato di grazia finale nel tanto desiderato happy ending carico di amore e gioia, NON guardate questo film.

Happiness è invece un film crudo, agghiacciante e carico della più disgustosa delle realtà: quella che ci circonda ogni giorno. Il procedimento adottato da  Todd Solondz, cinico e nichilista regista americano, è stato quello di prendere i due valori più cari agli americani, ossia “famiglia” e “felicità”, e ribaltare completamente la visione che il paese a stelle e strisce conservava gelosamente in proposito. Quando il film uscì nelle sale nel 1998, suscitò un clamore mediatico tale da renderlo “improducibile” dalla Universal Pictures che, formalmente, non mise la propria firma sulla pellicola.

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Il film si sviluppa seguendo le vite miserabili, psicologicamente contorte e desolanti dei diversi protagonisti. Joy Jordan è una trentenne frustrata, considerata una fallita dalle sue due sorelle.
Joy lavora in un call center, ma sogna di diventare una musicista affermata, anche se l’immagine impietosa della ragazza che ci presenta Solondz rende evidente allo spettatore che il destino della giovane sarà quello di fallire miseramente, nonostante sia uno dei pochi personaggi davvero “buoni” (nel più stretto senso del termine) dell’intera storia.

Sua sorella, Trish, è una donna all’apparenza soddisfatta, una casalinga, sposata con due figli, che vive in una casa accogliente. Suo marito, Bill Maplewood, è un rispettabile psicologo, padre amorevole e attento, ma che si rivelerà essere profondamente disturbato e con un armadio pieno zeppo dei più proverbiali (e orribili) scheletri.

La terza delle sorelle è Helen, una scrittrice snob, bella e di successo, ma terribilmente stanca e annoiata dall’avere tutto il mondo ai suoi piedi. Helen è pienamente conscia che la sua scrittura è “fasulla”, in quanto racconta storie di vita vissuta, ma non da lei: realizza di star “pescando nel torbido” senza averci mai nuotato personalmente. Si sente una nullità per questo e, quando il suo vicino di casa, Allen (uno strepitoso Philip Seymour Hoffman), un maniaco telefonico depresso e ossessionato dal sesso, le telefona per vomitarle addosso il suo amore  perverso,  lei ha una vera e propria sbandata per questa voce che le ringhia oscenità al telefono.

“..io so chi sei. Non sei niente. Credi di essere chissà chi e invece non sei un cazzo di niente.. tu sei il vuoto assoluto, tu sei una nullità, tu sei un buco nero e io ti scoperò e ti sbatterò così forte che ti farò venire dalle orecchie…”

(Allen)

Anche questo rapporto inquietante, deprimente e malato non potrà che avere epilogo nella mancata felicità dei due protagonisti.

Il film è inoltre popolato da un sottobosco di personaggi comprimari, alienati, corrotti e malati almeno quanto i protagonisti. Da Vlad, il tassista russo di cui Joy si invaghisce, il quale ripagherà l’amore della ragazza andandoci a letto per poi rubarle la chitarra e lo stereo; passando da Kristina, una sociopatica con problemi di obesità innamorata del proprio vicino di casa che altri non è che Allen il maniaco telefonico; fino ad arrivare ai genitori delle tre sorelle, nel mezzo di una crisi matrimoniale dovuta all’improvvisa e completa apatia cronica di Lenny, il padre, che ha perso completamente la capacità di provare sentimenti e che desidera solo di concludere la propria esperienza nel mondo, bramoso del nulla eterno, di una morte anonima, nonostante goda di perfetta salute e di tutti gli elementi per poter essere felice.

Sostanzialmete Solondz ci presenta un valzer frenetico e deprimente di personaggi che rincorrono la propria felicità, arrovellandosi e attorcigliandosi l’uno con l’altro, senza raggiungere altro che caos, infelicità e desolazione. Quello che viene rappresentato è un mondo che disgrega, spersonalizza e favorisce l’incomunicabilità delle persone. Il film è cadenzato da temi musicali azzeccatissimi che accompagnano ciascun personaggio nel proprio percorso narrativo, dal continuo brusio della televisione costantemente accesa e blaterante (chiaro simbolo di alienazione) e dal respiro pesante, rauco (e angosciante) di Allen, il maniaco telefonico.

Il risultato finale è eccellente, sia dal punto di vista dell’armonia estetico-visiva del film, sia per l’analisi psicologica dei personaggi estremamente curata, e per la cinica (ma realistica) rappresentazione di una società americana meschina, distruttiva e fasulla.

Obiettivamente parlando il film non è adatto a persone troppo sensibili o moralmente convinte della bontà intrinseca dell’essere umano. Happiness è un pugno nello stomaco dello spettatore, una pellicola che non fa altro che adeguarsi con chirurgica ferocia alla realtà che ci circonda.

Buona visione.

“Attori noti, per paura della ritorsione degli studios, hanno rifiutato il copione… Non è un film per bambini e non porterei mio figlio a vederlo, ma ciò non significa che un autore non debba sviscerare temi forti… Conosco gli abissi di sofferenza e malattia morale in cui sono immersi tanti ragazzini di oggi e in cui si macerano adulti apparentemente irreprensibili. Marchiarli a priori come “perversi” è mancare di umanità… Il film è politicamente non corretto? Sarebbe politicamente e socialmente scorretto non analizzare i problemi del mondo che ci circonda”

Todd Solondz, cit. Giovanna Grassi, “Corriere della Sera”, 12 gennaio 1999.

Happiness: la ricerca dell’(in)felicità ultima modifica: 2014-03-17T22:29:49+00:00 da Marco Piva