Quando la mancata distribuzione di un film diventa un crimine contro l’umanità. La meravigliosa favola ad acquerelli di Park Chan-Wook. Dalla Corea con… amore.
Quando nel 2004, Oldboy vinse il Gran Prix Speciale della Giuria a Cannes, presieduta da un entusiasta Quentin Tarantino, la critica e gli spettatori di tutte le sale cinematografiche del mondo si sperticarono le mani nel più fragoroso degli applausi, gridando al capolavoro. Opinione più che condivisibile, osservando la pregevolissima fattura del film di Chan-Wook.
Personalmente ritengo che i veri capolavori del maestro sud coreano siano altri: in primis, l’opera successiva ad Oldboy, Sympathy for Lady Vengeance, ultima parte della cosiddetta “Trilogia della Vendetta”, che, secondo il mio modesto parere, va a posizionarsi a un livello superiore rispetto al capitolo precedente. Tuttavia, oggi non voglio parlarvi di vendette più o meno efferate, ma di una bellissima e alquanto particolare storia d’amore.
I’m a cyborg but that’s ok! è un film uscito nelle sale nel 2006, vincitore dell’Alfred Bauer Award (film straniero) al Festival del Cinema di Berlino.
Young-goon è una tenera ragazzina che ha sempre vissuto insieme alla madre e alla nonna e che lavora in una fabbrica di radio transistor. Un bel giorno, però, la sua adorata progenitrice viene ricoverata in una clinica psichiatrica in quanto pensa di essere un ratto e non fa altro che nutrirsi di radici e prendersi cura di una covata di topolini che crede siano i suoi cuccioli. Quando a Young-goon viene strappata la sua unica fonte di vero affetto, cioè la sua nonnina, perde anch’essa il lume della ragione e comincia a credersi un cyborg.
Da buon robot che si rispetti, la ragazza cerca di ricaricarsi assorbendo energia da batterie e prese elettriche, rinunciando al cibo che rischierebbe di andare a incastrarsi nei suoi ingranaggi. In clinica, Young-goon incontra Park Il-sun, il ladro più strano della storia (per farvi capire, ruba le psicosi dei pazienti dell’ospedale), il quale s’innamora follemente di lei e, resosi conto delle turbe che la affliggono, cerca di aiutarla per salvarla dalla morte per denutrizione.
Park Chan Wook racconta allo spettatore una fiaba meravigliosa che sembra essere colorata con gli acquerelli di un bambino, tanto è dolce e delicata. Nelle immagini, nei dialoghi e nelle musiche non c’è mai banalità: eccezionali la canzone dello Yodel e i vari dialoghi di Young-goon con i distributori automatici di merendine o con le luci al neon dell’ospedale.
Persino gli effetti speciali, davvero molto curati, danno la sensazione di essere “delicati e soavi” anche quando sono utilizzati per la narrazione di scene degne della peggiore ultra-violenza kubrickiana. Menzione speciale alla fotografia e ai colori vivacissimi (per darvi un’idea vi lancio un titolo più conosciuto: Il favoloso mondo di Amèlie) e per i dialoghi che lasciano lo spettatore letteralmente senza parole. Davvero notevole anche la prova di recitazione dei due protagonisti Su-Jeong Lim (lei) e Jeong Ji Hoon (lui).
Park Chan Wook con Saibogujiman kwenchana (titolo originale del film) raggiunge vertici che il suo cinema non aveva mai toccato se non, forse, con Lady Vendetta.
Già dai titoli di testa, il maestro sudcoreano rende evidente quale sia la sua strepitosa abilità di regista e la sua immensa capacità di rapire lo spettatore in un vortice di riprese, colori e musiche a dir poco sublimi.
C’è da domandarsi come una simile perla non sia stata distribuita nel nostro paese. Ma forse la risposta è troppo scontata. Non permettere al grande pubblico di godersi un film come questo, per quanto mi riguarda, è un gesto paragonabile a un crimine contro l’umanità.
Voto: 9 (capolavoro? Poco ci manca). Ultraconsigliato. Buona visione.