Ridurre Jack White ai soli White Stripes, o peggio al coro da stadio cantato sulle note di “7 Nation Army”, che ha accompagnato la nostra nazionale di calcio nei Mondiali del 2006, è un tremendo abominio musicale. La sua hit più famosa continua a essere intonata dalle tifoserie di tante squadre sportive italiane, ma il suo autore, a suonare qua, non ci viene, e non ci verrà per un po’: si è appena preso una pausa dai palcoscenici. Rendiamo giustizia a uno dei talenti più cristallini e sregolati sulla scena, attraverso il suo meraviglioso ultimo disco solista, Lazaretto.
Uno dei principali organizzatori del Rock in Roma Festival, Max Bucci, ha rilasciato un’intervista a Rockol poco più di una settimana fa. “Jack White, per me, è un genio – ha detto – Però in Italia non ha ancora una base di pubblico che gli permetta un’incursione”. Qualcosa non quadra. Il riff principale di “Seven Nation Army”, la canzone più celebre dei White Stripes, è nettamente il coro più cantato in stadi e palazzetti dello sport italiani (e forse nel mondo). La nazionale di calcio, a ritmo di quella manciata di note suonate sulla stessa corda, ha vinto i Mondiali tedeschi del 2006. Non c’era piazza in cui non risuonasse il travolgente “po-po-po-po-po-po-po…”. E nonostante questo, non abbiamo “una base di pubblico” almeno sufficiente per organizzare un concerto di Jack White. Incredibile, eh?
Scherzi a parte, il dato c’è: chiunque conosce il pezzo più famoso da lui scritto, ma evidentemente quasi nessuno sa che razza di fenomeno sia il trentanovenne nativo di Detroit. Non solo non lo vedremo in Italia in questa stagione, ma non lo vedremo in assoluto per un bel po’, perché ha appena deciso di prendersi una lunga pausa da ogni tipo di palcoscenico. Torniamo a “Seven Nation Army”. Per carità, fighissima, assolutamente al di là del motivetto monocorda, lungi da me asserire il contrario. Però: primo, me l’hanno fatta odiare, a furia di sentirla ovunque per le strade, in quell’estate di 9 anni fa. Secondo, è semplicemente ridicolo ridurre a 7 note, soltanto perché molto riconoscibili, una carriera ancora breve ma già abbondantemente cosparsa di genialità. La parola chiave è eclettismo. Jack White ha all’attivo dodici album in quindici anni, due da solista e dieci con tre band diverse. Più una marea di collaborazioni, la più famosa è quella con Alicia Keys per il film “007 – Quantum Of Solace”, in qualità di autore, produttore, chitarrista, bassista e batterista.
Sei dei dodici dischi li ha pubblicati come frontman dei White Stripes, la sua incarnazione più nota, band nata dal sodalizio (anche matrimoniale) tra Jack e la batterista Meg White, con cui ha fatto conoscere al mondo la fertilissima scena garage rock di Detroit, che lui dominava da diversi anni. Due con i Raconteurs, superband con formazione ed estrazione sonora più classica, un quartetto co-capitanato da White e dal cantautore Brendan Benson, per esplorare sfere blues e folk. Due con i Dead Weather, blues mischiato con psycho-garage rock, gran casino organizzato. Un gruppo nato un po’ per caso, dove Jack White siede dietro alla batteria, il suo primo vero amore, e presta la sua voce a supporto di quella arrabbiata e graffiante della frontwoman Alison Mosshart. La band si serve anche della strasapienza di Dean Fertita, factotum dei Queens Of The Stone Age, e del basso di Jack Lawrence, già membro dei Raconteurs.
E poi c’è il lavoro da solista, quello che ci interessa di più, perché racchiude e riassume la prima parte della carriera di Jack White, elevando la sua musica a un altro livello. Si parte con Blunderbuss, nel 2012. Un disco registrato nel suo studio di Nashville, patria del country, con un vecchio registratore a 8 tracce e una ventina di musicisti di ogni genere ai suoi ordini. Come dare un mucchio di provette di liquido esplosivo in mano a uno scienziato pazzo. Tanto blues e ovviamente folk e country, un po’ più distante dal garage rock acido dei White Stripes. Disco spettacolare, che però oggi appare come un trampolino per il vero esame di maturità: Lazaretto, pubblicato nel giugno 2014. Enorme successo di pubblico e critica un po’ ovunque, ma mai più alto del numero 28 nella classifica dei dischi più venduti in Italia. La title track è il miglior biglietto da visita.
Power riff già protagonista dall’intro, in un brano a struttura schizofrenica. Quando pensi di aver capito dove voglia andare a parare, cambia direzione, è quasi ipnotico. A tratti spoglio e minimale, a tratti perfino barocco, come nel finale con violini, geniale, specialmente dopo tutto ciò che era appena successo nel pezzo. Miglior canzone rock agli ultimi Grammy Awards. Non ci facciamo mancare nemmeno un bel testo delirante, con frasi in spagnolo e una sottile blasfemia per cui Dio sarebbe una figura femminile. Nota a margine: tutte le parole nel disco sono riadattate da vecchie poesiole composte da White alla tenera età di 19 anni. Garage rock sperimentale al suo meglio, come in “High Stepper”, il primo singolo estratto, senza il cantato: soltanto una delle tantissime sfumature presenti in Lazaretto. “Temporary Ground” è una ballata un po’ country-folk, un po’ Led Zeppelin. Evviva YouTube, che ci offre una recentissima versione dal vivo.
Splendida, splendida Lillie Mae Rische al violino e alla voce, un autentico fiore grezzo raccolto da Jack White, che non è nè il classico virtuoso della chitarra alla Van Halen, nè un cantante formidabile. Non fa nulla di particolarmente complicato, ma è vero, crudo, disperatamente appassionato e dedicato alla sua vocazione, sul palco come nei dischi. Oltre a essere pericolosamente geniale e versatile, come dicevamo. La banalità non piace, le ripetizioni annoiano. E allora ecco l’idea per il video dell’ultimo singolo estratto, la svarionatissima, non saprei che altro aggettivo usare, “The Black Bat Licorice”. Clip interattiva, 3 video in uno con 3 registi diversi, tra cui ovviamente Jack White, che non è nuovo al lavoro con le macchine da presa, essendo già apparso in una decina di film. Schiacciate play e premete sulla vostra tastiera il tasto “3” o il tasto “B”: è un trip allucinante.
Vorrei postarle tutte, non lo faccio per ragioni di spazio. La traccia d’apertura “Three Women”, un blues sfrenato con un testo esilarante, “Just One Drink” e “Alone In My Home”, che sembrano B-Side di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, absit iniuria verbis. Tutto quanto Lazaretto è un’esperienza magnifica, da cui è difficile uscire senza avere almeno un po’ di voglia di esplorare tutti i travestimenti di Mr. White, nettamente uno degli artisti più innovativi e meno inquadrabili sulla scena musicale odierna, senza mai perdere contatto con le radici, in un balletto sfrenato tra passato e futuro del rock. Lasciamoci con “Would You Fight For My Love?”, la canzone più generalmente apprezzata del disco. A quasi 40 anni, Jack White sembra aver raggiunto la maturità definitiva: riuscirà a farsi ricordare dagli italiani oltre alle 7 note di “Seven Nation Army”?