Ci occupiamo di un altro chitarrista immenso, dopo Mayer, un altro grande John della musica. Quello che ha lasciato (due volte) i Red Hot Chili Peppers per soddisfare la voglia incontrollabile di sperimentazione. Ladies and gentlemen, Mr. John Frusciante. Riascoltiamone insieme l’album The Empyrean del 2009.
1992, la prima separazione, dolorosissima. Nel pieno dell’esplosione di un successo planetario, il chitarrista 22enne John Frusciante lascia i Red Hot Chili Peppers, durante il tour mondiale a supporto di Bloodsugarsexmagik, il disco della definitiva consacrazione dei “peperoncini”. Non riesce più a coesistere con l’idea di essere una rock star. Va vicino al suicidio, stile Kurt Cobain, con l’eroina al posto del fucile.
Nel 1996 il suo amico Johnny Depp gira uno scioccante documentario sulla sua vita distrutta dalla dipendenza, visibile su YouTube. “Non ho paura della morte, so che potrebbe arrivare da un momento all’altro, mi va bene così”. Parole figlie di uno stato confusionale perenne, uscite da una bocca che ha già detto addio a buonissima parte dei denti di cui era dotata. Intanto, escono i primi album solisti. Ascoltarli è un’esperienza simile a cercare in un mucchio di oggetti di ogni tipo e ritrovarsi in mano dei diamanti, pescati qua e là. Smile From the Streets You Hold viene pubblicato nel 1997 per finanziare l’acquisto di droga. Lo ammette il suo stesso autore, che lo ritira dal commercio due anni dopo.
1998, riabilitazione e ritorno nei Red Hot. Il lancio nell’Olimpo del rock. Il tour successivo all’uscita di Stadium Arcadium, datata 2006, coincide con il miglior momento del chitarrista californiano. Il quale, nel frattempo, pubblica altri sette dischi per conto suo e collabora con artisti di ogni sorta, passando dai sintetizzatori alle ballate acustiche come fosse la cosa più normale del mondo. Da un punto di vista musicale, i concerti dei Red Hot Chili Peppers di quel periodo sono probabilmente i migliori dell’intera storia della band. Ecco il mio “Frusciante moment” preferito di quel tour.
2008, la seconda separazione, consensuale (pare). John Frusciante è un’icona influentissima, un punto di riferimento per i chitarristi di tutto il mondo, ma si concentra sulla carriera solista perché non se la sente più di contenere la sua creatività entro qualunque tipo di confine.
2009, esce The Empyrean, il suo decimo album. Partiamo del commento dell’artista. “Si tratta di un disco da ascoltare ad altissimo volume, di notte, magari in un salotto molto dark”. Il senso di questa presentazione, lo lascio decriptare a voi.
Ho sempre visto The Empyrean come una testimonianza di tutto quello che John Frusciante può fare con la musica. Partendo dalle chitarre e da una voce particolarissima, passando per gli effetti e i sintetizzatori, arrivando alle drum machine e alle percussioni reali. Con l’aiuto di musicisti d’eccezione. Il basso del suo ex compagno storico Flea e la versatilità del polistrumentista Josh Klinghoffer, artista cresciuto nel mito di Frusciante che si è guadagnato la stima del suo idolo e addirittura il suo posto nei Chili Peppers, occupato ancora oggi. E ancora, le chitarre di Johnny Marr degli Smiths e gli archi del gruppo californiano Somos Quartet.
La prima traccia si chiama “Before the Beginning” ed è una santificazione della chitarra elettrica, un omaggio a Eddie Hazel, ai Funkadelic e alla loro mitica “Maggot Brain”, un assolo di 10 minuti su un accompagnamento appena accennato di basso e batteria. “Song to the Siren” (traccia 2), cover di Tim Buckley, dà sfoggio della vocalità di Frusciante, inconsueta, per usare un eufemismo, di quelle che o si amano o si odiano. “Unreachable” (traccia 3) concede spazio a un suono leggermente più orientato verso il mainstream, abbastanza da avvicinarsi a quello degli ultimi Chili Peppers di Frusciante, per capirci. Non a caso, risalta il fantastico lavoro al basso di Flea.
Bisognerebbe soffermarsi su tutti i brani di The Empyrean, perché ognuno rappresenta un piccolo pezzo di un puzzle straordinario. Per ragioni di spazio, mi limito a sottolineare “Enough of Me” (traccia 7), che come “Unreachable” si presta a un suono molto accessibile rispetto alla media dell’album, concludendosi con un assolo meraviglioso. E poi “Central” (traccia 8), un crescendo intensissimo di 7 minuti abbondanti, in cui si ritrova tutto il disco. La batteria è volutamente bassa, anche se nel finale darà il suo apporto, soprattutto con i piatti. La voce a tratti è sofferta, sforzata, si fa fatica a riconoscere le parole, compito già non facilissimo, causa marcato accento californiano. Il piano si accompagna alle chitarre, il cui suono viene alterato con la solita pletora di effetti al limite della psichedelia, per il cui uso esagerato John veniva criticato già nei Chili Peppers. L’ingresso degli archi apre al finale, dove tutti gli strumenti crescono all’unisono: anche la voce, che ripete sempre lo stesso verso, prima bisbigliato e poi urlato. Il tutto, sovrastato da un assolo di classico stampo Frusciante.
Dopo questo disco, JF si è dedicato all’elettronica molto, molto sperimentale. Forse lui è cent’anni avanti rispetto a dov’è la musica oggi in un ipotetico continuum temporale, sicuramente io non sono pronto per certi esperimenti borderline, ma lo preferisco con il suo strumento in mano, tutta la vita. Nell’empireo dei chitarristi, dove merita di stare.