Si dice che i più grandi registi visionari costruiscano i frame della loro pellicola come dei grandi quadri. Nulla di più vero per Melancholia, dodicesimo film del danese Lars Von Trier. Un’opera esteticamente magnifica, ma anche carica di significati. Lo spartiacque della rassegna The End è un maestoso affresco sulla fine del mondo.
Sulle note del Tristano e Isotta di Wagner, uno spettacolare intro di 8 minuti conduce lo spettatore dentro a Melancholia, surrogato di regia pura, straordinario connubio tra immagine e musica.
Nei primi secondi il film è già stato fatto. Il primo piano della sposa Justine (Kirsten Dunst, miglior attrice a Cannes 2011) si mangia lo schermo, chiarendo fin da subito quale sarà il tema: la depressione. Subito dopo, il pianeta Melancholia si schianta contro la Terra, polverizzandola.
Questo è Lars Von Trier, signori. Fondatore insieme a Thomas Vintenberg (autore del capolavoro Festen) del Dogma 95, uno degli ultimi veri movimenti cinematografici, basato su ferree regole tra cui la camera sempre a mano e l’utilizzo di sole luci naturali. Un voto di castità poi rinnegato per realizzare opere al di là di ogni catalogazione: da Le onde del destino a Dogville e Dancer in the dark, fino al recente Nymphomaniac, il marchio di Lars è unico e indaga ossessioni, perversioni, turbamenti e lati oscuri dell’animo umano come pochi altri.
La trama di Melancholia, una fine del mondo di bellezza pittorica (trailer ITA)
La storia che segue quell’incipit pazzesco è un unico flashback, che racconta la festa di matrimonio di Justine e i giorni immediatamente successivi. Justine è depressa, ignora la festa, sta male e non sa perché, non può essere aiutata. La sua è inizialmente una silenziosa richiesta d’aiuto. Poi, con la catastrofe imminente, diventa freddezza, cinismo. Di fronte a una situazione potenzialmente tragica, la sua reazione è il totale annullamento emozionale.
Una forte presa di posizione esistenziale, una presa di coscienza dell’apocalisse che va ben oltre l’evento fisico (“se pensi che un pianeta mi spaventi, allora sei veramente stupida” dice alla sorella Claire, interpretata da Charlotte Gainsbourg, musa di Von Trier anche in Antichrist e Nymphomaniac).
Come in 28 giorni dopo di Danny Boyle, il film di apertura della nostra rassegna The End, anche qui vengono mostrati diversi approcci alla fine del mondo. Jack (Keifer Sutherland, noto per la serie tv 24), il marito di Claire, è il tipico uomo in cerca di ogni spiegazione possibile, alfiere della scienza e della conoscenza, incapace di accettare l’irrazionale. Infine Claire, il personaggio più fragile e preoccupato, forte abbastanza da evitare inutili isterismi ma lontana dall’armonica depressione di Justine (“la terra è cattiva” e va bene così).

Un frame (o un quadro?) di Melancholia
Un po’ come la serie The Leftovers, che YURY ha amato non poco, Melancholia solleva interrogativi misteriosi e forse inafferrabili. Come si deve reagire di fronte all’imponderabile, alla sconfitta dell’umanità, alla fine del mondo? Ci si affida alla religione? Ci si attacca a vicenda? O forse l’unica soluzione è beatificare l’apocalisse e farsene una fottuta ragione?
Per provare a rispondere, o quantomeno a discuterne, Melancholia unisce la bellezza pittorica all’estetica del documentario. La macchina a mano di Lars Von Trier è sempre addosso ai personaggi, costantemente in primo piano, e quasi nulla viene preparato: gli attori interpretano liberamente il copione, senza sapere dove stia la camera, seguendo l’energia, l’istinto (“Gli errori sono regali”, dichiara il nostro Lars).
Come nel miglior cinema, un’immagine vale più di mille parole. La locandina della nostra rassegna l’abbiamo dedicata a Melancholia. L’occasione è unica. Ci vediamo in sala!