“La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza” . Ci manchi Pier Paolo. Ci manca il tuo pensiero. Al termine di questo film, insieme alla tua morte, sfiorisce per una seconda volta l’Italia più bella.
Pasolini di Abel Ferrara, il film che si propone di analizzare le ultime 24 ore di vita e il pensiero di quello che è stato uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento, è finalmente sbarcato nelle sale italiane, dopo essere stato presentato in concorso alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia.
Per raccontare il pensiero politico, sociale e artistico di Pier Paolo Pasolini il regista italo-americano ha deciso di adottare un sistema di mixaggio, una composizione ad affresco formata dalla rappresentazione delle ultime ore di vita dello scrittore bolognese prima del suo assassinio sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, mescolata alle linee narrative delle sue due grandi “incompiute”: il romanzo “Petrolio” e la sceneggiatura di “Porno-teo-kolossal”, film mai realizzato.
Pasolini è una pellicola incredibilmente complicata da interpretare e recensire, come del resto la maggioranza dei film di Ferrara che da sempre schiacciano sul pedale della provocazione e sulla particolare visione che il regista newyorkese ha del cinema e del mondo. Gli spunti registici interessanti, alcune scene brillanti con dialoghi di un’accortezza e una puntualità disarmante, si alternano troppo spesso a note stridenti e scelte completamente sbagliate, che inevitabilmente affossano il risultato finale. Ferrara gioca a fare il trapezista salterellando di qua e di là su molte delle tematiche affrontate nella sterminata vita artistica di Pasolini, col risultato di trascurarle tutte, sfiorando solamente la profondità di pensiero che le caratterizzava.
Eppure parte degli elementi base per plasmare un buon film c’erano (e in parte funzionano) tutti:
Nel ruolo dello scrittore-regista, Willem Dafoe è tanto è sontuoso nella sua interpretazione che sulla sua faccia sembra esserci una maschera di cera modellata riprodurre la fisiognomica di PPP. L’attore statunitense ha senza dubbio fatto un grande lavoro di ricerca per entrare nel personaggio che, oltretutto, ha avuto modo di conoscere personalmente ai tempi de L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese. Dafoe ha dichiarato di aver cercato di “abitare” nel corpo e nella mente del letterato per prepararsi alla performance, arrivando a “flirtare con il fantasma di Pasolini”. Leggendo le recensioni, le critiche sul web e quelle che arrivano da Venezia mi sono stupito nel trovare molti che distruggono la prova di recitazione dell’attore insieme al film stesso. Sinceramente lo trovo incomprensibile. Personalmente riesco a dire solo “chapeu”.
I dialoghi, le interviste, gli estratti dai romanzi di Pasolini non possono che essere il carattere dominante e probabilmente più bello della pellicola. L’attivismo politico e sociale, il desiderio di provocazione, la lotta per il sottoproletariato (quello crocifisso nella figura di Stracci ne La Ricotta), l’anarchia di pensiero e la solitudine dell’essere senziente, i “suoi” ragazzi di vita, la profondità di dissertazione e di ragionamento del poeta e la tanto discussa omosessualità di Pier Paolo ronzano per tutta la durata del film.
Come detto in precedenza, i temi vengono affrontati frettolosamente e con una certa superficialità ma, quando la voce della penna di Pasolini prende le redini della narrazione (o quando la sceneggiatura riesce ad abbozzare quella che potrebbe essere una sua fedele riproduzione), la potenza espressiva che genera il film è disarmante. Il potere del dialogo in queste situazioni diventa straordinario, la sensazione di stare ascoltando una persona che misura con cura maniacale ogni singola parola pronunciata è cristallina, tanto che, anche il tempo di un respiro, di una pausa tra una battuta e l’altra, ha il peso di un’eternità.
Purtroppo, sull’altro piatto della bilancia pesa un discreto elenco di eresie visive:
Abbiamo già parlato dell’acutezza di certi dialoghi e situazioni narrative. Il grosso problema è che dopo aver apprezzato una scena pregevole (come possono essere le rappresentazioni delle due interviste, davvero puntuali e riuscite anche a livello tecnico), lo spettatore ne trova dietro l’angolo molte altre vergognosamente stereotipate e povere di qualsiasi profondità tecnico/emotiva/intellettuale (penso al racconto del disastro aereo, l’arrivo a Roma con la sovrapposizione del viale alberato con il Colosseo, la scena del ricevimento tratta da “Petrolio”, molte immagini della realtà quotidiana di Pasolini).
La fotografia, le interpretazioni degli altri attori (Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea, Adriana Asti), la scelta bislacca e confusionaria di girare alternatamente in italiano e inglese, nonché quella dei costumi a tratti vicini al ridicolo, potrebbero, da soli, per molti cinefili e appassionati di Pasolini essere un buon motivo per bruciare la pellicola di Ferrara. Non dico altro.
Detestabile e semplicistica la scelta di ridurre la morte di Pasolini a una mera conseguenza delle sue pulsioni sessuali quando, di fatto, il suo omicidio resta una delle pagine più misteriose e poco chiare della storia recente d’Italia. (A Ferra’… che c’hai la verità in tasca e ce la sei venuta a raccontare al cinema?).
In conclusione, mi sento di ribadire che Pasolini è un film contorto, strano, difficile da vedere, raccontare e/o giudicare, pieno di contraddizioni stilistiche e tematiche che bruciano quanto tizzoni dell’inferno.
La figura di Ferrara e la sua filmografia (salvo qualche scivolone) meritano rispetto, anche se l’idea che filtra attraverso questo film è che il regista abbia voluto fare il proverbiale passo più lungo della gamba, vanificando quanto di buono era riuscito a inserire nella progettazione del film, facendosi prendere dalla smania di fare bene e di mostrare al mondo la propria visione di Pasolini. Probabilmente la rappresentazione più calzante del giudizio per questo film sono state le lacrime di commozione, gli applausi, le urla e i fischi che coralmente lo hanno accolto a Venezia. Ferrara, come del resto Pasolini, è così: o lo si ama o lo si odia. Questo bisogna riconoscerglielo.
Volate al cinema…?