Manca pochissimo al voto per il referendum sulla riforma costituzionale, una questione che da troppi mesi divide il paese. Personalmente ho votato No (ho votato per corrispondenza da Bruxelles) e vorrei spiegare le ragioni per cui l’ho fatto.
Dopo quasi sette mesi di campagne elettorali pessime che hanno ampiamente superato il limite della propaganda, ecco illustrate le ragioni per cui ho votato No prendendo come base i punti della campagna per il Sì:
“Un nuovo Senato per superare il bicameralismo paritario”
Mancata sovranità popolare
L’articolo 1 comma 2 della Costituzione parla chiaro. “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Questo significa che, attraverso il voto, gli elettori scelgono la composizione delle assemblee legislative. La riforma invece prevede che i nuovi senatori, rappresentativi delle istituzioni territoriali, vengano scelti solo dai Consigli Regionali. Questa scelta si dovrà “adattare al risultato” delle elezioni regionali. Non è ancora chiaro quali elezioni (tra nazionali e regionali) determineranno la scelta dei sindaci-senatori.
Parlando di rappresentanza, la nuova formazione del Senato presenta una enorme differenza tra numero di deputati (630) e senatori (100), che rende la presenza di questi ultimi praticamente irrilevante in seduta comune.
Squilibrio dei contrappesi democratici
La mancanza di un’altra Camera con funzioni legislative altrettanto forti provoca un accentramento di potere nelle mani dell’esecutivo.
Combinato con l’Italicum, il nuovo Parlamento sarebbe l’espressione diretta della maggioranza di governo. Al partito vincitore delle elezioni andrebbero 340 seggi. Nelle sedute comuni importanti, come quella per l’elezione del Presidente della Repubblica e i giudici della Corte Costituzionale, servirebbero solo 98 voti per raggiungere la maggioranza necessaria dei 3/5.
Se ipotizziamo che almeno la metà dei nuovi senatori potrebbe appartenere al partito di maggioranza, i voti necessari di differenza sarebbero una quarantina (o forse meno).
La lista del partito (e non la coalizione, attenzione!) vincitrice delle elezioni potrebbe facilmente riuscire, attraverso un’intesa con un’altra forza politica anche piccola, a eleggere il Presidente della Repubblica. A sua volta il Presidente influenzerebbe la scelta dei giudici della Corte Costituzionale: se la prima carica dello stato fosse espressione della maggioranza, lo potrebbero essere anche i 5 giudici da lui scelti. La Camera ne elegge 3, e il nuovo Senato (se presenta la stessa maggioranza della Camera) altri 2: alla fine 8 o 10 giudici su 15 della Corte Costituzionale potrebbero essere scelti praticamente in maniera diretta dal governo.
Falsa stabilità politica
Non si può imputare l’instabilità politica al bicameralismo paritario, ma solo al tipo di legge elettorale vigente.
In Italia la doppia fiducia non ha mai rappresentato un ostacolo per la solidità politica fino all’entrata in vigore del Porcellum, che prevedeva premi di maggioranza diversi tra Camera e Senato e quindi difficoltà a creare coalizioni di governo. In tutta la storia repubblicana questo sistema fiduciario da parte delle due camere ha fatto cadere solo due governi: Prodi I e II. In ciascuna delle 16 legislature dal 1948 al 2013 si è avuta un’unica maggioranza, più o meno ampia, che ha dato vita a più governi, più o meno duraturi. Tuttavia, in nessun caso i problemi del formarsi o disfarsi delle maggioranze sono stati dovuti all’esistenza di due Camere.
Senato come Camera delle “Regioni”
Partiamo dal presupposto che il consigliere regionale e il sindaco sono espressioni di un territorio limitato. Con la riforma ogni regione avrebbe da un minimo di 2 a un massimo di 14 senatori, portando le rappresentazioni ad essere a macchia di leopardo, perché pochi territori riuscirebbero ad avere una voce nel Senato: basta pensare che in 9 regioni su 20 ci saranno solo 2 senatori. Come si fa a chiamarla ‘Camera delle Regioni’ se verrebbero rappresentati solo i localismi? Situazione che viene aggravata dalla mancata elezione diretta. Solo in questo caso i senatori eletti sarebbero stati espressione di tutto il territorio regionale, comuni compresi. Inoltre, l’elezione di secondo grado lascerebbe adito a ricatti ed egoismi territoriali che porterebbero i casi di mala politica regionale ad essere coperti o difficilmente indagabili grazie all’immunità di cui godrebbero queste nuove cariche politiche.
In un tentativo di assicurare la sovranità popolare, è stato aggiunto il principio di conformità agli indirizzi espressi dagli elettori nel voto per il consiglio regionale, che prevede che nelle 9 regioni meno popolose uno dei due senatori debba essere un sindaco. Ora, visto che le suddette regioni sarebbero rappresentate solo da 2 senatori, come può una sola carica rispettare il voto di maggioranza e opposizione?
“Per avere leggi in tempi più rapidi”
In questo caso l’imputato principale è la cosiddetta “navetta”, ossia la dinamica per cui il testo di un disegno di legge passato per la Camera ma modificato dal Senato debba obbligatoriamente tornare alla Camera. Ma siamo sicuri che questa sia la vera causa della lentezza del nostro procedimento legislativo?
Un sondaggio OpenPolis afferma che delle 252 leggi approvate fino a oggi durante l’odierna legislatura solo 50 (20%) hanno subito la doppia modifica. Per quanto riguarda invece la scorsa legislatura (2008-2013) su 391 leggi approvate solo 90 (23%) hanno fatto navetta, secondo Il Sole 24 Ore. Le navette prolungate sono in genere sintomo di difficoltà politiche solo nella maggioranza, si manifesterebbero anche con una sola camera. In ogni caso, i tempi medi vengono definiti “lenti” solo quando fa comodo. Le statistiche parlamentari affermano che proprio nella legislatura scorsa le leggi di iniziativa governativa, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono state approvate mediamente in 116 giorni. Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati 38 giorni, che si riducono a 26 per la conversione dei decreti collegati alla manovra finanziaria. Infatti, i rapporti della Camera dei Deputati posizionano il nostro paese al secondo posto in Europa per numero di leggi approvate in un anno, ossia 120. Al primo posto troviamo la Germania con 144, al terzo la Francia con 91, al quarto la Spagna con 45 e infine il Regno Unito con 42. Siamo sicuri che il nostro bicameralismo sia così ‘lento’ per colpa della ‘navetta’?
I procedimenti legislativi disciplinati dalla riforma Renzi-Boschi passeranno dai tre attuali (il procedimento normale, quello di conversione dei decreti legge e quello costituzionale) a otto.
1) procedimento bicamerale paritario; 2) procedimento monocamerale ma con intervento eventuale del Senato nelle restanti materie di competenza; 3) procedimento tendenzialmente monocamerale, ma con possibilità d’intervento del Senato entro i 10 giorni dalla data di trasmissione da parte della Camera (clausola “vampiro”); 4) procedimento monocamerale (non paritario) per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo, ma con verifica obbligatoria del Senato e possibili proposte di modifica entro 15 giorni dalla data di trasmissione; 5) procedimento monocamerale per i disegni di legge con approvazione a “data certa” (inapplicabile però alle leggi elettorali, alle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati, alle leggi di amnistia e indulto e alle leggi di bilancio); 6) procedimento di conversione dei decreti legge con eventuale partecipazione del Senato; 7) procedimento “speciale” monocamerale relativo all’approvazione delle leggi elettorali con possibilità di controllo preventivo da parte della Corte costituzionale; 8) procedimento monocamerale, attivato dal Senato con deliberazione a maggioranza assoluta, con la quale viene richiesto alla Camera di procedere all’esame di un disegno di legge che la Camera dovrebbe esaminare e sul quale dovrà “pronunciarsi” entro sei mesi dalla data di deliberazione.
Con questa diversificazione dei procedimenti legislativi in rapporto all’oggetto della legislazione, il rischio di creare incertezze e potenziali conflitti tra le due camere, che potrebbero arrivare fino alla Corte costituzionale, è molto alto.
“Per ridurre i costi della politica”
I conti sulle cifre che la riforma farà risparmiare, oltre a non tornare, sono abbastanza confusionari. Matteo Renzi ha dichiarato più volte che si dovrebbe arrivare al miliardo di euro complessivo, mentre il ministro Boschi ha affermato che la quota potrebbe arrivare a 500 milioni. Tuttavia, la Ragioneria dello Stato sostiene che i risparmi certi ammontano solo a 57,7 milioni di euro e quelli di Palazzo Madama si ridimensioneranno solo del 20%.
Il risparmio che consegue il taglio dei politici e dei costi, tanto sbandierato dalla riforma Renzi-Boschi, è molto minore di quanto si voglia fare pensare. I nuovi senatori non percepiranno l’indennità per le loro funzioni senatoriali, ma potranno godere comunque di un bel compenso: una diaria sotto forma di rimborso delle spese di soggiorno a Roma, rimborsi per le spese per l’esercizio del mandato e per quelle generali (segreteria, assistente parlamentare, etc.) e una quota di 2090 Euro al mese erogata forfetariamente. Comunque, la maggioranza dei costi proviene non dalle indennità, ma dalla gestione degli immobili, dai servizi e dal personale. Una soluzione ideale per ottenere risultati più significanti sarebbe stata la diminuzione di deputati e senatori (per esempio 415 e 150).
Per quanto riguarda l’abolizione delle province, la situazione può portare a equivoci. L’eliminazione del termine “provincia” dalla Costituzione ne consentirebbe l’abolizione, ma non in via obbligatoria. Al loro posto saranno previsti “enti di area vasta”: in pratica, le province potrebbero tranquillamente continuare ad esistere mascherate da altri enti con le stesse strutture politiche e amministrative.
“Per chiarire le competenze di Stato e regioni”
L’intenzione di partenza è buona, ma l’idea è stata sviluppata male. La riforma prevede finalmente l’eliminazione delle competenze legislative concorrenti tra Stato e regioni, ma non riesce comunque a superarne i contenziosi. Le competenze in codominio saranno ripartite tra le due parti, ma il confine tra ambito di competenza esclusivo statale e regionale non è ben definito.
Un esempio è quello della sanità, per il quale servirà capire la differenza in via interpretativa tra il livello di competenza legislativa dello Stato, che legifererà in materia secondo “disposizioni generali e comuni”, e quello delle Regioni, che si occuperanno di “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari”. Inoltre, la nuova “clausola di supremazia” sembra creare più confusione che altro, consentendo allo Stato, su proposta del Governo, di intervenire su materie non riservate alla competenza esclusiva statale, quando lo richieda la tutela dell’interesse nazionale. E chi decide quando la tutela dell’interesse nazionale è in pericolo? Più che una clausola sembra un jolly, da poter usare quando è più conveniente.
Il nuovo Senato parteciperebbe comunque paritariamente su materie di grande rilievo, come le riforme costituzionali: non si capisce con che tipo di legittimazione, vista la sua composizione non elettiva. In questo modo sembra chiaro che il Governo avrebbe un potere praticamente sproporzionato in materia, continuando a far sorgere conflitti di competenze, almeno fino a quando la Corte Costituzionale non delineerà i perimetri dei nuovi confini. Insomma, da una parte avremo finalmente la consegna allo Stato di materie che la maggioranza delle regioni ha dimostrato di non sapere e/o potere gestire in questi ultimi 15 anni, dall’altra le autonomie verranno ridimensionate con poche competenze su cui legiferare e per giunta nemmeno con esclusività (salvo le regioni a statuto speciale, che uscirebbero ancora più fortificate dai cambiamenti della riforma). Infine, risulta ancora più evidente l’inutilità del nuovo Senato: quella che doveva essere la camera rappresentativa delle autonomie si ritrova con ruoli fortemente ridotti e priva di funzioni di interesse regionale.
“Maggiore partecipazione dei cittadini”
Anche in questo caso è stata gettata al vento un’occasione per rinforzare gli strumenti di democrazia diretta. La riforma Renzi-Boschi eleva il numero minimo di firme per la presentazione di una nuova proposta di legge da 50mila a 150mila e, come se non bastasse, ne rimanda le garanzie dei tempi, le forme e i limiti ai futuri regolamenti parlamentari.
Per quanto riguarda il referendum abrogativo è stato istituito un quorum “selettivo” in base alle firme raccolte: se il numero dei sottoscrittori raggiunge quota 500mila il quorum rimane il 50%+1 degli aventi diritto al voto, ma se invece dovesse arrivare a 800mila il quorum verrebbe abbassato alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni politiche della Camera dei Deputati. Da un lato questo potrebbe rappresentare una concessione favorevole alle istanze referendarie, dall’altro invece un ostacolo difficilmente sormontabile. 800mila firme da raccogliere in tre mesi sono forse troppe, senza contare che il numero di sottoscrittori richiesto favorirebbe più una minoranza organizzata che gruppi di persone casuali.
Dulcis in fundo, la novità introdotta dalla riforma che forse più di tutte getta fumo negli occhi: i referendum propositivi e di indirizzo. Nel testo della legge Renzi-Boschi sono menzionati solo a futura memoria, venendo rimandati a un’altra ventura e incerta legge costituzionale. Si tratta evidentemente anche in questo caso di una semplice promessa e non di un risultato acquisito, come sostengono molti sostenitori del Sì.
Terrorismo psicologico, false promesse e specchietti per le allodole
Il punto più basso della campagna elettorale per il Sì è stato raggiunto non tanto dai toni utilizzati (anche quelli per il No non sono stati da meno), ma dai messaggi che sono stati comunicati. Ogni mezzo doveva essere valido per convincere l’elettore a votare a favore, senza realmente spiegare perché i contenuti della nuova legge fossero importanti e innovativi per il paese. Uno stuolo di minacce perlopiù infondate e promesse difficilmente mantenibili.
“Non si fanno riforme da 30 anni”.
Siamo sicuri? I siti istituzionali confermano che in questi ultimi 33 anni vi sono state ben 104 riforme su: articoli della costituzione, leggi elettorali, regolamento Camera e Senato, sistema Autonomie Locali, organi di rilievo costituzionale come Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio Supremo di Difesa e Corte dei Conti. Tentativo ingannevole di far risultare la riforma unica, necessaria e indispensabile.
“Ora o mai più”
Esempio lampante di terrorismo psicologico. La maggior parte dei contenuti di questa riforma sono in circolazione da tempo (i 10 “saggi per le riforme” nominati da Napolitano nel 2013 avevano già avanzato alcuni temi di questa legge) e non esiste nulla o nessuno che impedisca la possibilità di nuove riforme in futuro in caso vinca il NO, soprattutto se si dovesse produrre una legge elettorale decente. Perché quindi far credere che questa sia l’unica opportunità esistente?
“Se vince il No si aprirà instabilità politica”
Il caso più grave di come la mentalità del terrore viene applicata alla propaganda. Dove starebbe scritto che se il referendum consultativo finisse con un esito sfavorevole per chi l’ha proposto il Presidente del Consiglio dovrebbe rassegnare le dimissioni? Se dovesse vincere il No e Matteo Renzi volesse decidere di non mantenere più il proprio incarico sarà esclusivamente responsabilità sua, non dipendente dai contenuti del referendum. Sia perché sarebbe una propria spontanea decisione e sia perché è stata sua la volontà di legare a doppio filo la riforma costituzionale all’operato del suo governo. La conseguenza più logica di una vittoria del No sarebbe un rimpasto di governo o un governo tecnico fino al 2018: e che ci sarebbe di instabile in tutto ciò? La vera scongiura di questo rischio sarebbe una legge elettorale degna per potenziali elezioni anticipate, se possibile senza un premio di maggioranza così sproporzionato.
E poi ci sono le promesse, da sempre i metodi migliori di convincimento. Per alcuni ognuna di esse è debito, per altri no. Ma in campagna elettorale, si sa, più sono grosse e luccicanti, più attirano l’attenzione. Ne abbiamo sentite molte: il ponte sullo stretto di Messina, una riduzione dell’IRPEF per il 2018, la quattordicesima raddoppiata per le minime, l’anticipo pensionistico, riduzione delle bollette, aiuto alla ricerca contro il cancro… Non si sa se verranno mantenute in caso di vittoria, ma è certo che sono state usate come diversivo.
Le buone intenzioni con cui la riforma sembrava partire sono progressivamente sparite, per lasciare spazio agli interessi e alle ambizioni di pochi, non di certo per il bene e la stabilità politica del Paese.
Uscire dal cieco dualismo “innovatori=virtuosi/ conservatori=biasimabili” potrebbe aiutare a capire che una riforma della nostra Costituzione è sì necessaria, ma non obbligatoria. Sicuramente non alle condizioni che abbiamo appena potuto vedere.