I Green Day pubblicano un nuovo disco. Si spera uno solo, stavolta. Si chiama Revolution Radio, ed è l’ultimo lavoro della band di Billie Joe Armstrong dopo il trittico di album del 2012 “Uno, Dos, Trè” che non era stato all’altezza delle precedenti punk-opera. Per ingolosire i fan hanno rilasciato tre singoli. Li ho ascoltati, e in un attimo avevo di nuovo tredici anni.
Sempre piaciuti, mai veramente difesi. Tranne in quelle grosse discussioni adolescenziali, dove individui il cui il lettore mp3 era più indegno della loro pubescente cronologia Internet cercavano con malcelato disprezzo di convincerti che i Green Day qualche pezzo carino lo avevano, ma mai come i Blink-182, incredibili, spanne sopra! La band della loro giovinezza che non c’era niente del genere sul pianeta. E meno male, aggiungo io.
Il me del medio liceo, alle prese con estri critici da giornalino scolastico, si era fatto prestare da un giovinetto la trilogia di CD Uno, Dos, Trè, ultime pubblicazioni prima del venturo. Per poi doverlo deludere con una pessima recensione.
Avido di musica di cui vantarmi, avevo archiviato i miei ciceroni del rock di plastica, coloro che mi avevano pogato via dai lustrini educati dei Queen, in favore della, di tutti personalissima, ricerca dei classici rock 60s e 70s.
Ma chissenefrega, neanche me li ricordo quegli album.
Per l’annuncio del nuovo disco Revolution Radio, i Green Day hanno pubblicato non un nuovo singolo, ma tre, in veloce sequenza.
Li ascolto.
Nuovi singoli, vecchi Green Day…
A metà del primo, “Still breathing”, la bestia critica vacilla, si rabbonisce: vedi mai che magari, gli altri, se non sono ballate facili…
Al secondo (title track, “Revolution Radio”) faccio pace con loro; Billie Joe Armstrong e compagni riemergono dal sottobosco ormai sconfinato del gusto musicale di un ventiduenne fermamente legato alla ripetitività ricercata dei riff, al gusto per le atmosfere e per frequenze monolitiche, senza neanche sapere che hanno bucato il velo della maturità musicale al primo ritornello.
Lo fanno in modo tanto autentico e forte quanto era ascoltare American Idiot in macchina, CD rinvenuto, quest’estate, andando in Francia ad ascoltare gli Sleep, un gruppo Metal pesantissimo che in realtà col Metal ha molto poco a che fare ma oh, faccio prima a dirvi così, che a spiegare come uno snob musicale che in realtà sono eccome.
Avete presente quando passa la macchina dell’asfalto sotto casa vostra e vi rovina la maratona di How I Met Your Mother? Ecco, loro suonano quello.
Al terzo pezzo sono alle medie. Cammino verso scuola e “St. Jimmy” guida i miei scarponcini da montagna Decathlon, i miei occhiali da vista sottili a bordo frangetta, la giacca a vento sbottonata così poco consona alla periferia dei “Boxeur de Rue” in cui muovo i miei passi da studente confuso. Così poco punk, così poco maleducato, il mio primo paio di ribellioni fiammanti si chiamerà Etnies. Dalle scarpe da skater, a surfare una lavatrice; unici due gesti punk della mia adolescenza.
Poco importa se nel video di “Bang Bang” sono a una festa di giovani molto giovani, rapinano una banca e alla fine piovono soldi ribelli, nonostante la canzone sia una critica mascherata alle sparatorie di massa americane. Poco importa che l’età di Billie Joe segni quarantaquattro e che la biondina gnocca a fine video ti aspetti solo gli dica “papà, basta dai, mi metti in imbarazzo, vieni a casa che mamma ha fatto le polpette”. Importa ancora meno che i ritornelli sudino party-rock sulle strofe e che tutto abbia sempre meno senso, che sia così dannatamente, volutamente anni novanta. Dalla copertina del disco con uno stereo a cassette che brucia fino al tema stesso dei video, ma in un revival HD di quel periodo confuso e sincero per il rock tutto.
Importa ancora meno perché alla fine funziona, e basta una parola un po’ esotica, una nota inaspettata o un urlo campionato inserito al momento giusto, per azzerarti il gusto musicale, farti venire voglia di scrivere sul dorso del diario di scuola qualche frase assolutamente priva di valore sentita nelle canzoni, e farti canticchiare tutto quel che ti si è piantato matematicamente in testa, a sogghignare per quanto facessero e fanno ancora ridere quei pagliacci dei Blink.
In questa guerra tra poveri del punk, loro erano proprio la peggio spazzatura pop patetica, e non c’è Travis “batteristaincredibile” Barker che tenga.
“You’re dead
I’m well fed!”
Io ho ragione e voi avete torto, perché ho tredici anni e ce li avrò sempre, finché i Green Day continueranno, subdoli, a sfornare singolacci dal sapore ventennale.
Matteo Bodra, Scuola Media N. Barabino, IIIB