In maniera sottile e inconscia, abbiamo creato delle barriere tra noi e il film drammatico. Cosa ci spaventa? Perché dovremmo apprezzarlo? Senza dimenticare l’immenso tesoro della commedia, è ora di tornare ad accogliere la tragedia a braccia aperte.
Da qualche tempo ho cucito uno spazio nelle coscienze dei mie coetanei come cinefilo relativamente affidabile. Da allora, mi capita spesso di consigliare film. Ieri sera mi hanno chiesto di suggerire una commedia che fosse anche in grado di far riflettere. Ho puntato su Le fate ignoranti di Ozpetek, per provare, allo stesso tempo, a far rivalutare anche il cinema italiano di qualità. Non immaginavo che ne sarebbe scaturito un acceso dibattito su come i giovani d’oggi vedano il cinema.
I miei amici cercatori di commedia, dopo soli 10 minuti, hanno spento la tv e cambiato film. Questo perché, nonostante sapessero che si trattava di un film a suo modo anche divertente, non erano disposti ad accettare un avvenimento molto drammatico nella storia: la morte del marito della protagonista, la quale cade in una profonda depressione.
Ora, sicuramente io ho sparato alto, e ho preteso troppo proponendo un film che, a ben vedere, è certo più dramma che commedia. Ma il punto è un altro. La morte e il turbamento che ne consegue, ma più in generale il fatto drammatico, sono oramai difficili da far digerire al pubblico giovanile.
Il discorso si fa più ampio. La nostra società ha un problema. E non parlo di corruzione e criminalità. Si, quelle ci sono, ma uno dei mali più profondi del nostro tempo è di una banalità sconcertante: la paura della morte. Questo ci terrorizza più di ogni altra cosa.
Prendiamo due fenomeni di successo a caso: la chirurgia estetica e Twilight. Di cosa parlano? Del mito dell’immortalità, che comporta una deresponsabilizzazione totale. Se vivrò per sempre, ogni azione perde significato, tutto è ritrattabile e infinito. Non ci sono conseguenze, non c’è crescita possibile. Non a caso anche il genere fantasy spopola. Se ambiento il dramma in un mondo immaginario, lo spettatore non ha paura, perchè quel mondo sottende finzione, permette di non mettersi in gioco.

William Shakespeare
Ma fermiamoci un secondo, ripartendo proprio dalla base. Un film racconta una storia. Raccontare significa entrare in relazione con sé e con gli altri. Significa illuminare zone sconosciute. Questo è il bello della drammaturgia, parla spesso ai nostri angoli nascosti, remoti. Per quanto possa sembrare tenebroso e spaventoso, entrarvi è l’unico modo per conoscere e per conoscersi veramente. La consapevolezza è anche dolore, ma in un modo o nell’altro porta alla pace interiore, alla serenità, toglie dei macigni pesanti come montagne dallo stomaco. Di cosa aver paura allora? Un grande dramma ti scuote, ti turba, ti mette ansia, e alla fine, più o meno consapevolmente, ti arricchisce. Non c’è nulla di umanamente più lodevole.
Un tempo, maestri come Molière e Shakespeare parlavano di noi, duramente e ferocemente, con una forza umana dirompente. Infatti dalle loro rappresentazioni si usciva magari in lacrime, abbattuti, ma nel profondo meravigliati e arricchiti. La tragedia legava le persone. Questo approccio oggi sembra essersi smarrito e forse paradossalmente il luogo dove meglio si esprime è proprio il tempio della semplificazione e dell’addolcimento della pillola: la televisione, il cui fine ultimo è intrattenere, o meglio, tenere a bada, intrappolare.

Il volto iconico di Walter White in BB
Indubbiamente la qualità drammaturgica delle serie tv è cresciuta a dismisura negli ultimi anni (Breaking Bad è la punta dell’iceberg), ma il cinema ha raggiunto vette anche più alte, inspiegabilmente snobbate a causa di una presunta pesantezza tipica di quelli che vengono superficialmente definiti “drammoni“, o “mattoni”, o “film presi male”. Purtroppo a causa di pochi ma decisivi brutti esempi (mica tutti i film drammatici sono belli e arricchenti!) oramai si tende a generalizzare.
Basta accennare a un tema scomodo o pesante et voilà, una bella fetta di audience sparisce nel nulla, manco fossero tutti Keyser Soze. Ciò che viene recepito come inaffrontabile e indigeribile non sono solo argomenti tabù come eutanasia e pedofilia, ma situazioni drammatiche anche molto banali.
Un esempio: Onora il padre e la madre di Sidney Lumet. Una storia fatta di tradimenti, ricatti e vendette, dove ogni personaggio tira fuori il peggio di sé, fino al finale sconvolgente. Considerato generalmente un drammone, un vero mattone, è in realtà un’opera dalla sensibilità eccezionale, in grado di scavare a fondo nella complessa, imperfetta e distorta natura dell’uomo. E poi c’è Philip Seymour Hoffman.
Questa tendenza a rifiutare il confronto drammatico è riscontrabile anche nel panorama cinematografico italiano, che produce commedie in quantità letteralmente industriale, dimenticandosi di tutti gli altri generi e sottogeneri, spesso offuscando sperimentazioni e nuovi stili.

Michael Fassbender, attore feticcio di Steve McQueen, qui nel film “Shame”
Non tutto è perduto comunque: un film come 12 anni schiavo, partorito dalla geniale mente di Steve McQueen, vero alfiere e portabandiera del film crudo e viscerale senza peli sulla lingua (si vedano Hunger e Shame), si è da poco portato a casa tre Oscar ed è stato visto e apprezzato da un pubblico molto vasto. Grazie al clamore delle statuette e a un cast di superstar, McQueen è riuscito a far digerire temi molto pesanti. Che possa essere lui l’aggancio, il link, che ricolleghi anche i più diffidenti alle storie più stupendamente drammatiche?
Anche il cinema di Xavier Dolan (di cui vi abbiamo parlato con il suo ultimo film, Mommy), attraverso la regia originale e il tono spesso ironico della scrittura, è prodigiosamente in grado di trattare temi forti e molto drammatici rendendoli scorrevoli, piacevoli e innovativi. Dolan, classe 1989, è una delle più interessanti promesse del cinema mondiale, vale la pena provare ad affidarsi anche a lui.
In tutto questo, è giusto anche tener conto dei contesti personali. Se vi hanno appena steccato a un esame, o se avete rotto un longevo fidanzamento, nessuno nega il sacrosanto diritto di spararsi l’intera trilogia di Una notte da leoni (ma, anche lì, si può trovare di meglio, no?), purché questo non diventi un alibi fisso. Bisogna fare un piccolo sforzo per abbattere il primo scoglio. Dopodiché, è garantito, i risultati saranno profondamente positivi. Mettiamoci in gioco, e affrontiamo le storie a braccia aperte!
Bene, ora che ho consumato la mia parte da Gladiatore, vi do appuntamento al day one del prossimo cinepanettone.