Dopo la trionfale edizione 2015, La Settimanale torna a Genova per continuare a movimentare la scena artistica cittadina e per creare fermento attorno a una cultura visiva sempre più sentita e partecipata. Ogni mercoledì dal 27 aprile al 25 maggio, a Palazzo Ducale incontri e confronti con 5 big della fotografia, ma no solo: per l’edizione 2016 anche tante interessanti novità.
Il 27 maggio dello scorso anno ci eravamo lasciati ascoltando Stefano Guidani, per chiudere il ciclo di 4 incontri de La Settimanale 2015. Oggi, a un anno di distanza, La Settimanale torna con un’edizione 2016 più ricca e articolata, che conta non solo 5 appuntamenti con grandi esponenti del mondo della fotografia, ma anche proiezione di documentari, workshop e un contest fotografico in collaborazione con YURY.
Il mercoledì è il giorno prescelto per parlare a Genova di fotografia e di tutto il mondo di professionisti, amatori e semplici appassionati che vi ruota attorno. Dal 27 aprile al 25 maggio 2016, ogni terzo giorno della settimana, dalle 19 alle 21, la sala del Munizioniere di Palazzo Ducale ospita La Settimanale: cinque grandi nomi del settore incontrano il pubblico e condividono esperienze, lavori, racconti per portare la loro esperienza a Genova, aiutandoci a capire cosa significa, oggi, essere un fotografo e che cosa è cambiato nel mondo della fotografia. Tutti gli incontri sono a ingresso gratuito fino a esaurimento posti.
YURY parteciperà a tutti gli incontri in programma per riportarvi le parole dei grandi ospiti de La Settimanale, nel caso non aveste potuto esserci.
SCATTA IL CONCORSO!
Il contest fotografico sul tema “La diversità”: 4-31 maggio
In occasione de La Settimanale di fotografia 2016, YURY – insieme alle associazioni La Settimanale e SACS Fotografia – organizza un concorso fotografico per mettere alla prova i tanti appassionati che, anche grazie a questo mese di incontri con grandi personalità del settore, coltivano la passione per la fotografia e contribuiscono al fermento culturale genovese.
Il tema scelto per il contest è “La diversità“. Che cos’è per voi la diversità? Cosa la rappresenta al meglio? Abbiamo scelto un argomento ampio e facilmente interpretabile per lasciare esprimere i fotografi nella massima libertà.
Invia la tua foto a magazine@yury.it, conquista la giuria composta dal ‘popolo’ di Facebook, da YURY, SACS Fotografia e La Settimanale e vinci il concorso! In palio un corso di fotografia digitale tenuto dal fotografo Phango di SACS.
25 maggio – Alessandro Penso

Foto by SACS (Bruno Oliveri e Massimo Catania)
“Per me fotografare è un’esperienza personale che non ha prezzo”
Alessandro Penso, giovane talento del fotogiornalismo contemporaneo vincitore del Word Press Photo e autore del reportage sulle migrazioni considerato dal Time il miglior progetto fotografico del 2015, è il quinto e ultimo ospite della Settimanale di fotografia, edizione 2016.
L’approccio di Alessandro Penso alla fotografia è stato tardo, come lui stesso racconta: classe 1987, si avvicina al mondo del fotogiornalismo da studente di psicologia, spinto soprattutto dal bisogno di svelare le storie personali che si nascondono e forse si perdono all’interno della nostra società. Si dedica quindi a temi ‘caldi’ come il terremoto in Abruzzo e poi, a partire dal 2009, inizia a coprire il fenomeno migratorio, prima a Malta, poi in Spagna, in Francia. Nel 2012 è in Grecia, dove scopre una realtà ignorata dai media europei: l’esodo di migliaia di giovani in fuga dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan. In particolare decide di concentrarsi su una minoranza etnica afghana, gli Hazara, e sulle popolazioni nordafricane dopo il naufragio delle primavere arabe.
Le fotografie di Penso hanno un fortissimo contenuto sociale, sono fotografie vicine, partecipate, coinvolte perché hanno un doppio livello di lettura: in primo piano c’è sempre un protagonista, il portatore della storia raccontata dalla fotografia, e uno sfondo: quello sfondo siamo noi, l’Europa e gli europei. Per poter portare alla luce queste testimonianze bisogna però lavorare a lungo e secondo un metodo che Penso accomuna a quello del minatore: sceglie un tema, lo studia a lungo e accuratamente, si immerge nel contesto culturale e prima ascolta, poi fotografa, entra così nel cuore della vicenda e ne svela i suoi segreti al pubblico. Così ha fatto per raccontare la rivolta dei lavoratori stagionali a Rosarno, nel 2009: una storia di sfruttamento e abbandono, poi pubblicata sull’Economist, e dietro cui si nascondeva (fra gli altri) il colosso multinazionale della Coca-Cola Company.
Un altro esempio di dedizione nella storia professionale di questo giovane fotogiornalista è stata la mostra itinerante The European Dream – Road to Bruxelles, definita un atto fotografico: è stata allestita dentro un tir per poterla portare nei luoghi in cui quelle storie dovevano essere raccontate, sia che fossero il lungomare di Brindisi o la periferia di Bari o una piazza di Atene. Il costante tentativo di raggiungere le persone aldilà dei mezzi di comunicazione tradizionali fa di Penso un photoreporter di spicco: il suo messaggio è non arrendersi di fronte alle barriere, ma trovare nuove vie e credere sempre di avere qualcosa di speciale da dare agli altri. Ciò che conta davvero è non perdere l’empatia verso le persone, soprattutto se stanno vivendo peggio di noi.
Purtroppo in Italia manca lo spazio per i reportage fotografici, soprattutto se riguardano temi ad alto impatto politico e sociale, infatti Penso racconta come il suo lavoro trovi riconoscimento all’estero, dove l’approccio giornalistico è completamente diverso e molto meno lobbistico rispetto alle testate nostrane: un’affermazione forte che trova riscontro nell’attenzione mediatica posta dal Financial Times, dal Guardian o dall’Economist a tematiche italianissime, come ad esempio la camorra, che in Italia hanno poca copertura.
Alessandro Penso è un fotografo acuto e preparato, le cui fotografie non sono freddi documenti ma affettuosi riconoscimenti dell’esistenza altrui. La sua semplicità e allo stesso tempo la sua attenzione alla complessità della vita umana lo rendono il testimone perfetto delle grandi contraddizioni della nostra società.
[Margherita Basso]
18 maggio – Renata Ferri
“I giornali pensano che il pubblico vada attratto con delle trappole. All’inizio può funzionare, ma alla lunga è un metodo che non paga e di cui risente tutto il settore”
Quarto ospite de La Settimanale 2016 è Renata Ferri. Caporedattrice photoeditor di IO Donna e di Amica, femminili del Corriere della Sera, ha diretto la produzione fotografica della storica agenzia Contrasto. È stata inoltre membro della giuria del Word Press Photo nel 2011 e nel 2012. Attualmente ha anche un blog dedicato a storie fotografiche su Il Post e, oltre a essere membro di numerose giurie, si dedica all’insegnamento.
Quello di Renata è stato un dialogo non programmato – come ha detto Maurizio Garofalo, moderatore dell’incontro -, una chiacchierata con una donna autorevole e colta, sulla sua esperienza professionale e di vita. Proprio su questo si basa questo talk, a cui lei stessa dà un titolo: “Tre vite, forse quattro“.
Renata si affretta a parlare con entusiasmo e vivacità, caratteristiche che fin da subito risaltano in lei, dell’inizio della sua passione per la fotografia: «La mia prima esperienza con la fotografia è stata del tutto casuale; così come tutte le cose migliori iniziano per caso. Ero solo una giovane studentessa di Storia all’Università di Roma quando feci domanda per entrare nella scuola professionale di fotografia con una amica». L’amica non passò, ma lei sì. Da qui inizia la sua prima vita a contatto con la fotografia: due anni a scuola, dove giorno dopo giorno «la passione per la fotografia intesa come linguaggio si faceva sempre più forte». Anche se proveniva da un mondo fatto soprattutto di parole, durante il suo percorso didattico si “innamorò ossessivamente” del linguaggio fotografico, nonostante si sentisse sempre un po’ a disagio a scattare. Proprio la sua passione della lettura delle immagini e dell’organizzazione delle foto la spinse a cercare un’altra strada, che non fosse quella dietro all’obiettivo di una macchina fotografica: «La consapevolezza di non essere una fotografa, la passione e lo studio (figlio dell’ossessione e della dedizione) è quello che mi è servito per mantenere fino a oggi la relazione più lunga della mia vita».
La prima vita di Renata continua con un incarico di due anni a Milano presso l’agenzia Contrasto (“piccola ma agguerrita”, come la definisce lei). Questa è stata per lei un bellissima esperienza motivazionale, soprattutto perché capitata in un periodo in cui l’editoria era all’apice della sua espansione: iniziava a comparire molta pubblicità, nascevano diversi giornali e approdavano in Italia i primi allegati dei quotidiani, che contenevano inserti di fotografia. Dopo due anni di Contrasto a Milano, Renata ritorna a Roma dove si mette in proprio e “impara a progettare”. Pubblica infatti diversi lavori, tra i quali ricorda “Underground“, progetto realizzato con le fotografie di sei metropolitane in giro per il mondo. Lei stessa definisce questa opera un “lavoro sui costumi del mondo, ancora attuale”, sottolineando come “la più grande esperienza è quella dei rapporti umani”. Ferri rivela anche che tornando indietro avrebbe editato altre foto, ma questo è dovuto al fatto che anche le sue idee, i suoi punti di vista e le sue necessità sono cambiate: «Se prima avevo voglia di foto vicine, con un obiettivo 35 mm, ora invece voglio spazio».
La seconda vita, cosi come la prima, inizia per pura casualità, venendo accettata per il posto di photoeditor di Io Donna. Si avvera così un sogno nel cassetto di Renata: entrare in un giornale e vedere come funzionano le cose, imparare il linguaggio giornalistico e la severa gerarchia all’interno di una redazione. Le parole che preferisce usare per questa sua seconda vita sono “curiosità” di intraprendere una nuova avventura in un mondo a lei totalmente nuovo, “sperimentazione”, “proposta” di idee sempre nuove e “opportunità”, il sostantivo con cui definisce questo secondo paragrafo della sua carriera. Dopo sei anni di lavoro in Io Donna, Renata accetta un nuovo incarico ad Amica, trovandosi a lavorare per due progetti editoriali con contenuti diversi, ma entrambi incentrati sulle tematiche femminili.
Con il passaggio alla terza vita, arrivano anche le domande più scomode dal pubblico della Settimanale. Renata infatti si impegna in discussioni e dibattiti sulla fotografia, soprattutto sul più che attuale argomento della post-produzione, a volte troppo spinta tanto da creare finzione. Ferri riscontra questi eccessi non tanto nei giornali, quanto nei fotografi, e quindi nel fotogiornalismo: «Oggi, con le attrezzature a nostra disposizione, tutti possono fare delle buone fotografie. Per anni sui giornali abbiamo avuto un insieme di paesaggi stupendi, grandangoli sotto i visi dei bambini africani e discariche che bruciano. Si è creata una iconografia pazzesca e ne siamo tutti un po’ sazi». Conclude questa parentesi soffermandosi sulla crisi che sta vivendo il fotogiornalismo in prima persona; oggi infatti l’ambizione di un fotografo è vincere premi, concorsi, non più lavorare ‘solo’ per un giornale.
In questa terza vita che accomuna Renata e tutti noi, la fotografia è in rete e le immagini sono in continuo movimento. Proprio tutto questo quantitativo di materiale ci porta non più a cercare le fotografie, sono loro a proporsi continuamente, il nostro compito è quello di setacciare e filtrare tutto ciò che ci viene offerto.
Nella sua quarta vita, Renata si dedica ad altre cose ancora, tra cui ricorda soprattutto l’editing per i libri: «Ho bisogno di andare dentro questa cosa e concepirla», ha detto di quest’ultima sua occupazione. Renata è una donna in continuo movimento, sempre pronta a sperimentare e a imparare, che si stupisce ancora, certo non per le foto pubblicate su alcune testate giornalistiche, magari sulle “orride” colonnine destre dei siti internet: «I giornali pensano che il pubblico vada attratto con delle trappole. All’inizio può funzionare, ma alla lunga è un metodo che non paga e di cui risente tutto il settore. Siamo tutti in una stessa barca che affonda, giustamente. Sono anche io colpevole e vittima di un sistema che premia la fotografia d’intrattenimento, che non problematizza, che è solo illustrativa».
Durante il talk con il pubblico, Ferri accenna alla sua passione per Vivian Maier, sulla quale dice: «Avrei voluto ritrovare io il suo famoso baule». Grazie alla street photographer americana recentemente riscoperta, molta gente si è avvicinata alla fotografia: «Tutto ciò che causa divulgazione è bello», dice dell’opera della Maier, collegandosi anche al discorso sull’avvicinare le persone alla fotografia e alla lettura di immagini sin dall’infanzia, a partire dalle scuole.
Renata Ferri lascia questa interessantissima chiacchierata dando a tutti coloro che volessero intraprendere la strada del photoeditor o che vogliono editare da soli le proprie foto con un consiglio prezioso: «Si può imparare a editare il proprio lavoro, certo forse c’è una capacità innata nel saper cogliere la foto giusta, ma studiando, leggendo libri, andando alle mostre e soprattutto confrontandosi con i fotografi più grandi, si può imparare sempre tantissimo». La cultura, come in molte altre professioni, è una base invisibile ma necessaria per svolgere il mestiere del photoeditor.
[Veronica Marco]
11 maggio – Anna di Prospero

Credits: Massimo Catania e Bruno Oliveri (SACS Fotografia)
“Quando devo fare le mie fotografie, non mi interessa niente, mi spoglio, giro a piedi scalzi. Sono come in trance”
L’incontro con Anna Di Prospero ha permesso al pubblico de La Settimanale di approcciarsi alla fotografia artistica, ripercorrendo la storia di una giovane e precoce fotografa (29 anni) che è cresciuta insieme ai suoi scatti, fino a ottenere riconoscimenti di livello internazionale. Ciononostante, Anna continua oggi a lavorare in Italia e non si sente una fotografa arrivata («lo farò se a 50-60 anni sarò ancora qui»). Centrale in tutta la sua opera è l’autoritratto, la presenza del sé attraverso l’evoluzione di un linguaggio e delle prospettive.
«La fotografia è stata per me uno strumento di analisi, sono cresciuta insieme alle mie foto, è stata un’esperienza fortemente formativa, in cui ho scoperto molto di più di qualcosa che ti reca felicità. Non vivo solo per il mio lavoro, con le foto ho scoperto che i legami con la famiglia sono imprescindibili per me. Anche se la solitudine però è una cosa meravigliosa. La adoro ed è per me fonte di grande ispirazione».
Come un fiore che lentamente si schiude per aprirsi al mondo esterno, Anna Di Prospero è partita dal fotografare la sua casa d’infanzia a Latina, svelandosi piano piano fino all’esternalizzazione, dal privato della sfera intima (famiglia e amici) agli ambienti pubblici, alle architetture, ai palazzi, per indagare il rapporto tra uomo e ambiente, in un lavoro intimista che parla però agli altri. Le sue foto sono sì situazioni reali, ma frutto di una performance in cui recitare se stessi, una messa in scena del sé per esprimere una sensazione anche attraverso gesti, costumi, vestiti. C’è un’azione fisica tramite la fotografia. Le immagini di Anna sono vere e proprie opere d’arte, da museo, da collezione, da galleria, ma anche da riviste (ultimamente una di psicologia francese). Immagini simboliche ed evocative, ma ritoccate, frutto di uno studiato allestimento.
Davanti alle tante persone accorse a fare la sua conoscenza nella Sala Munizioniere di Palazzo Ducale, Anna dipana la sua storia insieme alla moderatrice Giulia Ticozzi e nonostante qualche linea di febbre. Il primo concorso a 15 anni al liceo, la pittura e la prima serie di fotografie, quelle nella casa nuova in cui si è trasferita con la famiglia subito dopo gli studi (Self-portrait at home, 2007-2009): «Le fotografie mi hanno aiutato a entrare in contatto con quel luogo nuovo. Sono state un tramite. Un gioco durato 3 anni, in cui prendevo molti spunti dal cinema, una mia fonte costante di ispirazione». È in quel periodo che Anna scopre un social network fotografico, Flickr, che dapprima la incoraggerà a condividere sempre più la sua sensibilità artistica, le permetterà di rivolgersi a un pubblico internazionale e poi le regalerà una chance per la notorietà.
Dopo questa fase “casalinga”, Anna si apre poi al mondo esterno: decide di uscire di casa e cercare nuovi orizzonti. Nel 2009 si dedica così a una serie di foto a Latina (scattate la mattina presto) per riscoprire la sua città e creare con lei un nuovo legame. Nessun’altra presenza umana all’infuori di lei è coinvolta, proprio per sottolineare il rapporto tra la persona e il paesaggio circostante. Nello studio di questa relazione, assumono grande rilevanza gli abiti che Anna indossa nei suoi autoritratti: «C’è dietro uno studio profilato, l’indumento mi serviva a creare un filo conduttore narrativo. Da questa serie (Self-portrait in my hometown, 2009) ho iniziato a calare il mio volto, non volevo essere riconoscibile. Non volevo lasciare intendere di essere io, quella ragazza nelle foto poteva essere chiunque. L’autoritratto non è presentare se stessi».
In questa continua ricerca di un fil rouge tra la figura umana e l’ambiente, Anna approda poi a rivolgere la sua attenzione alle architetture contemporanee. «Prima di recarmi in una città a fotografare, studio le architetture da casa, previsualizzo le foto su internet e leggo libri di architettura, poi faccio delle prove scattandomi foto per ricercare le posizioni del corpo più idonee, poi elaboro degli sketch sui miei quaderni e infine mi reco sul posto. Talvolta capitano imprevisti, oppure che trovi i luoghi diversi da come me li ero immaginati». E qui l’aneddoto: «Una volta ero sola con mia sorella alla Biblioteca Mitterrand a Parigi, dove non si poteva stare senza un permesso. Mi sono tolta la maglietta per sdraiarmi nella posa che avevo scelto e proprio in quel momento è passata una guardia. Ci ha guardato male, ha scosso la testa e se n’è andato: ci avrà creduto due ubriache. Quando tempo dopo sono invece tornata con la troupe di SKY Arte invece ci hanno mandato via subito. Non mi interessa chi mi vede quando metto in scena le mie performance. Quando devo fare le mie fotografie, non mi interessa niente, mi spoglio, giro a piedi scalzi. Sono come in una sorta di trance».
Alle volte i giovani fotografi pensano che per emergere siano necessarie solo le giuste conoscenze, dimenticandosi di coltivare il proprio talento. Non è il caso di Anna Di Prospero, che è sì stata premiata anche da un colpo di fortuna, ma che deve la sua ascesa soprattutto a un lavoro assiduo, costante: «La costanza per me è un concetto cardine. Consiglio a tutti i giovani fotografi di essere costanti nella produzione. Oggi siamo bombardati di immagini, che insieme ai fotografi spariscono in un attimo, per questo bisogna avere grande continuità».
L’incontro inaspettato. Abbiamo detto dell’importanza di Flickr e della possibilità di raggiungere un pubblico potenzialmente sconfinato: «Un bel giorno mi scrive su Flickr un utente dicendo di essere Walter Veltroni, allora Sindaco di Roma, per propormi di allestire una galleria alla notte bianca della Capitale. Non ci ho creduto. “Figurati se è lui”, ho pensato. Poi su Rolling Stone di qualche mese dopo mi segnalano un’intervista in cui Veltroni parla di questo tentativo fallito di valorizzare una giovane fotografa notata sui social. Gli scrivo immediatamente per scusarmi e di tutta risposta mi ha segnala per una mostra al Festival Internazionale di Fotografia di Roma. Avevo 19 anni e parlando col direttore del festival mi dice “Ma tu sei parente di Veltroni? Non sei ancora pronta, studia!”. Aveva ragione. Ho studiato molto e da lì è stata tutta un’escalation, anche grazie all’Università di Roma».
Nella fotografia, non basta la fortuna. Tanto più in ambito artistico, dove c’è bisogno di più costanza, rispetto al fotogiornalismo che è sempre ispirato dalla notizia. Non è facile lavorare senza stimoli esterni o lavori commissionati. Questo può anche però essere un bene: «Il mio è un lavoro intellettuale – dice Anna – un approccio di ricerca che non si esaurirà mai. Oggi però il mio lavoro è soprattutto essere manager di me stessa, dedico meno tempo alle foto rispetto a una volta. Altro che la figura del fotoartista scapestrato degli anni ’70, oggi quella vita significherebbe non lavorare».
Dal primo periodo lungo lontano da casa – da cui nascerà la serie Self-portrait in temporary houses( 2010) elaborata a New York – la decisione di Anna di indagare il rapporto con le altre persone, dapprima coinvolgendo le persone a lei più care, i parenti più stretti, gli amici. «Essere davanti a un obiettivo ha rivelato nuovi aspetti delle persone a me più vicine. In quel frangente ho giocato molto sui riflessi dettati dalla presenza delle finestre, con la camera posta dietro al vetro. Il vetro fungeva da elemento di separazione, di protezione». Il lavoro successivo è stato Self-portrait with Strangers (2012), col quale Anna Di Prospero passa dal conosciuto allo sconosciuto: «Ho coinvolto persone che non conoscevo, i loro affetti e ambienti, i loro oggetti più cari: ho scoperto delle belle persone e anche loro hanno scoperto cose nuove di loro stessi. La fotografia è un mezzo per conoscermi e per conoscere le persone, ma anche per mettermi in contatto anche con posti sconosciuti. La rappresentazione del luogo per me è una proiezione di ciò che abbiamo dentro, non è mai una visione oggettiva, ma individuale, che può essere interpretata diversamente da ognuno».
Nel 2012 un nuovo progetto, Instinct: «Ho realizzato di stare diventando troppo metodica – ammette Anna – e ho cercato di recuperare l’iniziale mia spontaneità. Sono tornata allora nella casa dei miei e ho scattato qua e là senza pormi domande. Il film The tree of life mi è stato di grande ispirazione, soprattutto nella volontà di indagare il rapporto tra microcosmo e macrocosmo. Spesso in questi dittici di foto ricorrono soggetti che le persone identificano come nebulose: in realtà ho fotografato dei semplici elementi come acqua, terra, polvere, che poi ho sottoposto a ore e ore di post-produzione. In quel periodo vedevo nebulose ovunque. Una volta mentre mangiavo mi sono fermata e ho preso la fotocamera perché ne avevo vista una in una cotoletta. Questo lavoro ha certamente un approccio più cinematografico, c’è una sequenza che non può essere cambiata. Ho affrontato aspetti narrativi, avevo qualcosa da raccontare che aveva a che fare con la mia esperienza personale, ma che – anche grazie a titoli che non influenzano l’opinione – è arrivato alle persone in modo diverso».
Nel giugno del 2014 il suo primo e unico lavoro su commissione: «Sono stata chiamata a Marsiglia (Marseille(s), 2014) per promuovere la cultura in grande fermento in quella città attraverso un libro fotografico. La costante è stato un vestito rosso che ho sempre indossato: ho ritenuto che il rosso rappresentasse al meglio la città, attraversata da forti conflitti. In una foto c’è solo il vestito, senza il mio corpo dentro: era perché questa donna che rappresentavo doveva essere di passaggio in quel luogo, mi è piaciuto pensare che alla fine si dissolvesse per riapparire altrove». E infatti, nel 2015 eccola a Central Park.
Sul finire dell’incontro, Anna svela il suo rapporto coi social e con la realtà odierna del mondo della fotografia. «Flickr per me è stato fondamentale, oggi utilizzo molto anche Facebook, ma più fare promozione. Ho anche un profilo Instagram. Oggi moltissime persone utilizzano questi mezzi, forse io senza quel profilo su Flickr non sarei mai approdata dove sono oggi. I social possono essere un bel trampolino, ma la parte importante del lavoro si realizza altrove».
La scelta dell’autoritratto come modalità espressiva, conduce a un paragone con i selfie, una ‘tecnica’ oggi molto in voga grazie ai social network come Instagram: «Molti li usano per esprimere una mania del sé, altri per condividere un racconto, nell’era della condivisione. È vero è una pratica che nasce come mera rappresentazione del sé, ma è comunque un’espressione della contemporaneità su cui sono stati realizzati e poi esposti anche lavori molto interessanti da artisti famosi».
Il suo sguardo sensibile e dal respiro internazionale di Anna Di Prospero, lascia in eredità a La Settimanale oltre alle sue esperienze anche una visione della fotografia artistica che verrà: «L’arte fotografica per me si sta spostando verso il concettuale, perché forse non sappiamo più cosa sia la fotografia. Nei momenti di crisi i lavori che ci inducono a ragionar sono fondamentali. Peccato siano poco considerati in Italia. Qui in Italia non c’è la concezione che una foto possa essere un’opera d’arte. Ma anche qui pian piano sta arrivando questo aspetto culturale. Il futuro? Porterò avanti i miei progetti sulle architetture contemporanee e sugli sconosciuti. Mi sto molto dedicando a tenere corsi e workshop di fotografia, che considero più cha altro come di educazione all’immagine. Oggi l’educazione all’immagine manca molto nonostante sarebbe fondamentale nella nostra vita».
[Alessandro Pucci]
4 maggio 2016 – Giovanni Troilo
Secondo appuntamento con La Settimanale: arriva a Genova Giovanni Troilo. Giovane talento del fotogiornalismo italiano, lavora per l’agenzia Luz. Fotografo e direttore della fotografia si muove tra il mondo del cinema della televisione e del reportage fotografico. I suoi lavori sono stati pubblicati sui magazine più importanti di tutto il mondo. Il suo sito ufficiale: www.giovannitroilo.com.
L’incontro con Giovanni Troilo

Tutte le foto sono di SACS (Max Catania e Bruno Olivieri)
«Le mie prime droghe giovanili sono state la camera oscura e gli acidi da sviluppo»
Al secondo incontro de La Settimanale di fotografia, conosciamo Giovanni Troilo, 37enne fotografo pugliese. Troilo si muove tra il mondo del cinema, della televisione, dell’editoria e della pubblicità. Ha iniziato a usare telecamera e macchina fotografica in giovane età: «Le mie prime esperienze nel mondo della fotografia sono state dopo il liceo, quando nel pomeriggio frequentavo lo studio di un fotografo». Ha portato avanti la sua passione mentre frequentava l’Università di Economia e Commercio, indirizzo Geografia dello sviluppo.
Quasi vent’anni dopo gli esordi, la lista delle collaborazioni e delle testate in cui sono stati pubblicati i suoi progetti fotografici è impressionante: Newsweek Giappone, D di Repubblica, GQ Italia, CNN, Wired Italia, Wired UK, Wired Corea, Wired Germania, GQ Spagna, Io Donna, Flair, Sport & Street. Nel 2011 a San Giovanni Rotondo ha realizzato “Fan Pio”, il suo primo lungometraggio docu-cinematografico, sulla bizzarra economia locale e sulla maniacale devozione dei fedeli a Padre Pio.
Tra il 2012 e il 2014 Giovanni Troilo ha diretto diversi documentari ed è stato direttore alla fotografia per Sky Arte HD, RAI, La 7, History Channel e Cult. Membro dell’agenzia Luz fino al 2014, Giovanni Troilo, che si definisce un “outsider”, sta attualmente lavorando a un documentario sull’artista sudafricano William Kentridge: sarà il suo secondo lungometraggio.
La voce di Maurizio Garofalo ha aiutato a conoscere questo professionista autodidatta, che spazia dalla fotografia alla videoproduzione sostenendo di non avere particolari preferenze tra le due tecniche: «Uso la fotografia o il video in base alle caratteristiche dello spettatore a cui è destinato il prodotto. Scelgo il linguaggio visivo da adottare anche in base alle situazioni e alle dinamiche che voglio rappresentare».
Troilo ha presentato per primo il suo progetto “Rising Class”, un fantastico lavoro sull’emarginazione sociale e sulla realtà degli homeless, descritte con scatti tra Roma e Trento: «Il tentativo era quello di raccontare la vita dei senza fissa dimora, invertendo il punto di vista comune e non descrivendoli come dei “loser”, ma come dei protagonisti quasi da copertina di Rolling Stone, cercando proprio di svincolarmi dal modello rappresentativo abituale, dalle etichette della società».
Il suo racconto è proseguito con una ricca carrellata dei suoi maggiori lavori fotografici di respiro internazionale, il più famoso di essi è stato anche occasione di dibattito e confronto di opinioni differenti fra Maurizio Garofalo e il suo ospite, trovatisi in disaccordo sulla “vera verità” che sta dietro a una fotografia destinata a un progetto di fotogiornalismo: anche questo fa parte dello spirito del dibattito de La Settimanale.
Nel 2015 Giovanni Troilo ha vinto il premio Word Press Photo con il progetto “La Ville Noir – The Dark Heart of Europe”, dove analizza, descrive, spia e mette in risalto una condizione sociale dove la “vergogna è morta”, dove non c’è differenza fra comprare un pacchetto di sigarette o spendere denaro per sesso a pagamento, dove le case vengono schiacciate da gasdotti collocati sul tetto e le uniche montagne che si possono vedere sono cumuli neri, scarti di carbone fossile non utile alle industrie, dove le pistole, fucili, lanciarazzi e perfino carrarmati potrebbero appartenere al vicino di casa.
La città europea dove Giovanni Troilo ha scattato e da cui poi è nato il suo progetto presentato al WPP nella categoria Contemporary Issues è la ‘non ridente’ cittadina di Charleroi in Belgio. Accade però che il sindaco della città (che è anche ministro) abbia accusato il fotografo italiano e anche la fondazione olandese Word Press Photo di “falsificazione della realtà”, facendo così revocare il premio assegnato a Troilo. (Per approfondire, leggere QUI).
Il progetto “Ville Noire” – ha spiegato Troilo alla platea de La Settimanale – ha messo in risalto un disagio sociale e culturale molto radicato e oscuro a molti, in un contesto dove i segni della difficile integrazione sono visibili e all’ordine del giorno. Troilo, di origini belghe, conosce bene la realtà di quella cittadina industriale dove suo nonno lavorava in miniera e di cui cugini e zii gli hanno potuto raccontare il passato.
Ma la questione che più ha tenuto a evidenziare, oltre a storie quasi da film tarantiniani dove mettere in risalto gli aspetti più “pulp”, è il discorso “sull’ambiguità della fotografia”: «Nessuno – sostiene con forza – è ambasciatore di verità se fa il fotografo. Il fotogiornalista descrive una realtà che si scontra con il potere se va a toccare argomenti e situazioni delicate, in cui lavora una macchina socio-politica molto più grossa di lui, che rende spesso impossibile far emergere la verità fattuale».
Il completo rispetto della realtà sarebbe oltretutto il credo della Word Press Photo, che infatti accetta solo fotografie senza alcuna post produzione per non alterare la verità, ma l’aver tolto il suo premio a Giovanni Troilo cedendo alle pressioni politiche – come ha sottolineato anche Maurizio Garofalo – squalifica decisamente la posizione della fondazione olandese e il suo prestigio agli occhi dei fotografi di tutto il mondo.
[Glauco Flori]
27 aprile 2016 – Guido Harari
LA SETTIMANALE di Fotografia 2016 inaugura gli “incontri e confronti per gli amanti della cultura visuale” con un grande ospite: Guido Harari, mercoledì 27 aprile 2016 dalle 19 alle 21.
Fotografo di fama internazionale e noto critico musicale, conosciuto soprattutto per i suoi ritratti ai più grandi musicisti del mondo, fa parte dell’agenzia Contrasto. Oltre ad aver immortalato mostri sacri della storia della musica come Paul Mc Cartney, Lou Reed, Vasco Rossi e altri, Harari è stato uno dei fotografi personali di Fabrizio De Andrè, con una collaborazione ventennale che include la copertina del disco In Concerto, tratto dalla leggendaria tournée dell’artista genovese con la PFM nel 1979.
L’incontro con Guido Harari

(Le foto di questo incontro sono di SACS – Massimo Catania e Bruno Olivieri)
«Ai fotografi di oggi dico di vivere prima di scattare, di coltivare la curiosità. Viaggiate, non vivete luoghi e persone attraverso uno schermo. Io per anni ho viaggiato lasciando a casa la macchina fotografica, sapendo che grazie a quelle esperienze sarei stato in grado di trovare altri momenti da fotografare».
Genova con lui si era lasciata nel 2008, con la mostra proprio a Palazzo Ducale dedicata a Fabrizio De André, curata da Harari con Vittorio Bo, Vincenzo Mollica e Pepi Morgia: «Ho solo bei ricordi di quel film di carta elaborato da Studio Azzurro in multimediale».
Introdotto da una pacata Giulia Ticozzi, Guido Harari ha accompagnato il pubblico del Munizioniere (numeroso e composito) in un percorso della memoria, ripercorrendo la sua storia professionale e personale dalla contestazione di fine anni 60’ fino ai giorni nostri, in cui è andato oltre la semplice foto per occuparsi anche della parola scritta, recuperando storie e racconti di figure iconiche del ‘900, inaugurando un nuovo approccio di tipo artistico.
Harari ha raccontato il suo percorso senza tratti nostalgici, ma ricordando come – quando ha iniziato lui negli anni ’70 – fosse più facile entrare nel mondo della musica e conoscere da vicino star come Peter Gabriel, Frank Zappa o Bob Marley: «Non volevo limitarmi al consumo passivo della musica, ma conoscere le persone, a costo anche di scoprire su di loro anche cose spiacevoli».
Quella volontà di conoscere e raccontare le storie dei suoi miti sin da ragazzino è stata la scintilla che – ancora oggi non spenta – lo ha portato ad affermarsi come fotografo di reportage su musicisti e concerti e di copertine di dischi che hanno fatto la storia, tanto che per anni gli è stata affibbiata, soprattutto da riviste come King e Max, l’etichetta di “fotografo del rock”. Un’etichetta di cui ha potuto spogliarsi solo negli anni ’90, quando nell’Agenzia Contrasto ha potuto esprimersi come ritrattista, ma di ogni tipo di figura: cantanti, scienziati, stilisti, filosofi.
Dal 2000 si è invece dedicato all’editoria, realizzando dapprima il libro su De André E poi il futuro, su invito di Dori Ghezzi, mettendo mano letteralmente alle carte di Fabrizio. Lo stesso è poi successo con Fernanda Pivano, con Giorgio Gaber e, infine con Pierpaolo Pasolini: «Sapevo che nel mio percorso sarei finito su Pasolini, per un tipo di portato sociale di cui era il più grande rappresentante. Io impaginavo, editavo e cercavo il mio sguardo in foto di altri. Ne è uscito un racconto irrispettoso, non formale e per impressioni. Il libro si sviluppa su doppie pagine bloccate, senza successione. Si passa da pagine di pura psichedelia a scene molto intime».
Ma come ha iniziato a fotografare Guido Harari? «Ammaliato dai primi videoclip dei Beatles tramessi in tv dalla Rai, su consiglio di un ottico, ho iniziato a fotografare il piccolo schermo con la macchina di mio padre. Poi passai ai film al cinema, tra lo stupore generale di chi guardava 2001 Odissea nello Spazio o Arancia Meccanica. Il cinema per me fu una grande palestra: se non scattavo nel momento giusto, dovevo aspettare la proiezione successiva per immortalare la scena che volevo: mi ha insegnato il tempismo».
Harari è un chiaro esempio di “Do it yourself”: «Non amo gli workshop, io non ne ho mai fatti nemmeno da giovane (da ritrattisti non esistevano). Li farei se fossero così, come questo incontro alla Settimanale, parlando, discutendo e magari dando una missione per poi rivedersi un anno dopo, dando il tempo di sviluppare un proprio linguaggio».
Grande importanza nella formazione di Harari ebbero invece le copertine dei dischi dei suoi miti: «Talvolta a scattare quelle foto erano ragazzini, gli unici capaci di interpretare le nuove tendenze, mentre nei ritratti erano impiegati grandi fotografi, che conservavano però un’impostazione semplice, uno sguardo diretto, come se volessero vivere quell’attimo, senza sapere forse che certi volti avrebbero fatto la storia: Elvis, Patty Smith o Janis Joplin vennero rappresentati come figure iconiche, di cui uno scatto era in grado di sintetizzare un’intera vita». In quel periodo Harari si ispira a grandi fotografi come Annie Leibovitz, Burt Glinn, Angelo Novi, Philippe Halsman, Arnold Newman e con questo backgroud si avvia al successo negli anni del Sesso droga e Rock’n’Roll. «Io però mi sono solo goduto il R’n’R, il resto l’ho lasciato agli altri».
Il susseguirsi di immagini evocative conduce Harari a parlare finalmente di De André: «Nel ’79 mi chiamò la PFM per il loro tour insieme a Fabrizio. Mi era sempre sembrato un personaggio irraggiungibile, che non si concedeva volentieri. Il mio viaggio infatti non lo vissi con lui, che spuntava solo nel tardo pomeriggio. Di lui allora potevo solo cogliere dei momenti, le prove, i concerti stessi, le sue assenze. Non era una persona semplice: l’alcol, il disordine, la sua idiosincrasia a esibirsi. Aveva una cultura sconfinata ed era in grado di parlare dei massimi sistemi davvero con tutti. Una volta nel ’79 a Bologna, lo colsi in un momento in cui si era sdraiato a riposare ai piedi di un calorifero e su quella foto mi scrisse una dedica: “Col culo esposto a un radiatore, s’era assopito il cantautore. Con affetto…”, lì c’era tutto Fabrizio».
Il non nascondersi dietro l’obiettivo e instaurare una relazione empatica coi soggetti dei suoi ritratti è il segreto di Harari: «Ho sempre cercato di vivermi il momento prima di scattare, di stabilire un rapporto personale prima che lavorativo: con Leonard Cohen ebbi grande feeling, così come con Tom Waits».
«Waits era il mio mito – ha raccontato il fotografo – e nei 15 minuti che mi concesse al nostro primo incontro cercò di provocarmi in ogni modo: non fui contento del risultato. Poi – nel ’92 a Parigi – riuscii a immortalarlo in un suo minuto di follia, quando iniziò a giocare con un fondale a mo’ di mantello: fui pronto e feci delle grandi foto fuori programma. Alla lunga lo capii, così come ho sempre cercato di capire la personalità di tutti. Ad esempio Ennio Morricone non amava essere fotografato: si nascose dietro la porta con gli occhiali sospesi per aria: lo assecondai nel suo desiderio di ricreare un Magritte».
Non sempre però Guido Harari è andato d’accordo con i suoi soggetti: «Solo con Armani una volta ebbi da ridire: mi portò in pratica a scattargli la foto che voleva lui e quando protestai mi disse: “Se lei non vuole dare ascolto al signor Armani vorrà dire che avremo perso mezz’ora del nostro tempo”. Mi mise davanti a un bivio: incazzarmi o abbozzare. Alla fine feci la foto, ma non come avrei voluto”. Con Gaber invece fu diverso. Ne fotografai gli spettacoli e tutte le sue pose ed espressioni facciali, mentre con l’ultimo Gassman – depresso, dedito solo al teatro e molto schivo coi fotografi – riuscii a cogliere un momento di dramma interiore e scampare a quel volto impostato».
“Analogico o digitale?” è il refrain che ricorre ad ogni incontro della Settimanale e, sull’argomento, Harari ha le idee chiare: «La mia prima foto digitale la scattai a Lou Reed e a Laurie Anderson, in macchina, illuminati solo dalla luce dei telefonini con cui stavano messaggiando. Se sia meglio l’uno o l’altro è un discorso che mi annoia. La differenza sta nel raccontare una storia o non raccontare niente. Nel valutare una foto non mi chiedo come è stata fatta, ma guardo il risultato. Il primo servizio in digitale lo feci – anni dopo il piccolo screzio – ancora ad Armani insieme alla squadra di basket che sponsorizzava: mi stupii di quanto feci presto».
Ma c’è forse qualcuno che avrebbe voluto fotografare tra quelli che Guido Harari non ha incontrato nel suo cammino? «Di oggi non saprei, di ieri Jimi Hendrix, Jeff Buckley, Prince, Bowie: avrei voluto conoscerli. Oggi è quasi impossibile avvicinare simili star: si può solo ascoltarne la musica. Il consiglio che posso dare ai giovani fotografi che amano la musica è di iniziare a fotografare gruppi o cantanti sconosciuti, alle prime armi, anche vostri amici: magari un giorno saranno famosi e voi ne avrete immortalato il punto zero».
[Alessandro Pucci]
Gli appuntamenti al Ducale
-
27 aprile – Guido Harari
-
4 maggio – Giovanni Troilo
-
11 maggio – Anna di Prospero
-
18 maggio – Renata Ferri
-
25 maggio – Alessandro Penso
Relatori: Maurizio Garofalo e Giulia Ticozzi
Il 4 maggio il grande fotografo e direttore della fotografia Giovanni Troilo, vincitore di importanti premi e regista di numerosi documentari parlerà di fotogiornalismo; l’11 maggio la giovanissima e talentuosa Anna Di Prospero, considerata tra le grandi scoperte degli ultimi anni, racconterà come è arrivata a esporre nelle più grandi gallerie del mondo e vinto numerosi premi nazionali ed internazionali. Il 18 maggio si parlerà poi di photoediting con una delle più importanti photoeditor italiane: Renata Ferri, con la quale si affronterà il tema della “scelta” fotografica alla fine di un progetto e dei criteri di scelta di pubblicazione nel mondo dell’editoria. Ultimo appuntamento, il 25 maggio, con il grande reporter Alessandro Penso, al lavoro su un progetto a lungo termine sull’immigrazione già in parte pubblicato sulle più importanti riviste di informazione nazionali e internazionali e vincitore dei più importanti riconoscimenti di fotogiornalismo.
Il calendario completo degli appuntamenti su www.lasettimanale.com.
Workshop con Penso e Di Prospero
I documentari de La Settimanale
Come annunciato, oltre agli incontri a Palazzo Ducale quest’anno La Settimanale di fotografia offre altri appuntamenti importanti, con l’intento di far sì che il mese di maggio diventi per Genova il mese della fotografia. Al cinema Sivori saranno proiettati tre documentari relativi a tre grandi fotografi: il 26 maggio, alla libreria Coop del Porto Antico, sarà presentato il libro “I-revolution” di Irene Alison, importante photoeditor che affronta il tema del cambiamento del mondo della fotografia apportato anche dallo sviluppo della mobile photography e infine, alcuni dei protagonisti degli incontri a Palazzo Ducale terranno degli workshop di due giorni. Altre informazioni sul sito lasettimanale.com.
Contatti
E-mail: lasettimanale@gmail.com
Telefono: 339 6635259
Non hai partecipato a La Settimanale 2015 e vuoi sapere com’è andata? QUI trovi tutto quello di cui hai bisogno.