Pubblichiamo così come ci è stato inviato, da un indirizzo mail ora inesistente, un racconto breve anonimo sul tema “dipendenza da gioco d’azzardo, ludopatia e slot machine”. Forse una storia vera, forse no. Lo proponiamo sperando che i nostri articoli a riguardo abbiano davvero smosso qualcosa.

Nel buio, la vibrazione del cellulare sul comodino mi sveglia.

Posticipo l’allarme di dieci minuti e rimetto la testa sul cuscino.
-Vrrr.
Il rumore del telefono che saltella sul legno del comò mi tira a sé, per la seconda volta, mentre sto per scivolare nuovamente nel sonno.
Sono già incazzato.
Con la coordinazione di un ubriaco di sonno giro per la casa mettendomi la roba da lavoro. Saltello qua è là mentre infilo i jeans. Gli stivaletti sono sporchi di calce e vernice (prima o poi avrò i soldi per cambiarli).
È presto. I ragazzi devono ancora alzarsi per la scuola e quel facocero della suocera suona ancora il concerto col trombone sul divano-letto del soggiorno.
“Capirai. Son già quattro anni di ‘sta agonia”.
Mentre mi allaccio la seconda stringa, da accucciato, guardo verso la sala e un raggio di luce tagliato dalla persiana illumina la lanuggine nell’aria. Sembra quasi voler incoraggiare. Ma poi alzo lo sguardo e vedo le nuvole grigie che promettono pioggia. Si prospetta la solita giornata con possibili seccature, accompagnate da scrosci di bestemmie.
Nell’aria fredda di questo cazzo di inverno che alla fine è arrivato mi butto dentro il baretto della piazza prima di salire a fare il giocoliere sul ponteggio.
– ‘Giorno Alfio – biascico.

Conosco questo cane da che mi son trasferito nel quartiere cinque anni fa. È il tipo d’uomo che con una mano fa e con l’altra, di nascosto, disfa. Gli affari clandestini che si intravedono sotto la superficie di questo squallido baretto di periferia neanche ve li immaginate. E Alfredo è lo squalo del suo acquario. Muove – silenzioso – la pinna caudale guardandoti e parlandoti con il sorriso della sfinge. Pacato. Sornione. Come se si preparasse per divorarti quando meno te lo aspetti. Lasciando solo un alone rosso sangue nell’acqua torbida. Come un pescecane. Ho provato solo una volta a chiedere credito per una giocata con la puttana metallica del locale. “Mai più in vita mia”.
– ‘Giorno a te. Cappuccio e brioches? – butta lì, mentre lava le tazzine.

Mentre mi sparo la mia brava colazione ancora mezzo addormentato penso allo schifo. “Lo” schifo. Con la L maiuscola. “Non reggo più. Il lavoro va come peggio non potrebbe. Questa crisi bastarda ha segato le gambe al paese. Vadano al diavolo tutti. Da quel verme che è vent’anni che prosciuga il paese, a ‘sto giovane coglione che sembra ancora più furbo di quelli che son venuti prima di lui. Però le “ospitate” in tv non gli mancano. Sono tutti una manica di ladri”.
– Il palazzo dal porto lo avete finito oppure ci state lavorando ancora?
“Sveglia. Sta parlando con te!”
– No. Manco per niente. Siamo ancora in alto mare.
– Allora sarà il caso che tu non ti ‘perda’ qua dentro come al solito – sogghigna. Lo stronzo. Sorride.
Mi sfotte perché è successo un paio di volte che mi sia lasciato andare un po’ troppo con la stronza dai denti verdi. Ma solo un paio. ‘Come al solito’ dice lui. Cazzo di bastardo esagerato.

-Stai tranquillo che non capita più. Ho risolto il problema delle tentazioni. Vedi?- gli allungo un venti azzurrino per pagare la colazione. –Basta uscire di casa con il portafogli sgonfio e non c’è nessun problema – gli sorrido di rimando.
“Suca testa di cazzo. Suca. Non ci rimango di nuovo incastrato qua dentro a buttare soldi”.
-Il più che posso fare è giusto giocarmi il resto della colazione… non credi?
-Se lo dici tu- sbuffa quasi annoiato.
L’ho deluso.
–Intanto qui hai il tuo resto – fa appoggiando i soldi sul bancone. – …con tre begli spiccioletti pronti in rampa di lancio. Magari è il tuo giorno fortunato… non credi?- Mentre lo dice i suoi occhi, da spenti che erano, si accendono di una luce cattiva. Quasi perversa.
-Può darsi- deglutisco con un rumore sordo che ricorda quello della gola dei protagonisti dei film.
Vado dalla stronza. Mi sorride con quel suo sorriso storto. Ogni tasto è verdone, ma in sequenza si illuminano tutti per un istante. Sinuosi. Ipnotici.
Le altre lucine decorative si muovono al tempo della musica country che emette la mia piccola dea.

Mi invita. Mi chiama. La guardo e penso che forse dovrei uscire.

“Non posso restare a giocare. A buttare soldi. Devo lavorare. E nel pomeriggio c’è la recita di Margherita. Se la perdo come minimo quell’altra chiede il divorzio”.
Una moneta. Una sola.
La inserisco, e il gesto è orgasmico. Sessuale. Intenso. Schiaccio il tasto di “spin”.
Fanculo la crisi. Perdo.
Ne metto un’altra.
Fanculo l’imu. Perdo.
L’ultima. Fanculo il mio matrimonio disfatto. Perdo.
Tiro un pugno sulla macchina (-Ehi vacci piano, quella mica è mia!) e torno con la testa bassa al bancone. Guardo da un’altra parte, pieno di vergogna, mentre chiedo allo ‘squalo’ di cambiarmi i dieci euro in moneta.
– “Giusto il resto della colazione”, eh?- sfotte mentre apre la cassa e mi impila le dieci monetine.
-Sì. Gioco questi, veloce veloce e poi vado. Ho ancora dieci minuti.
Poi…
Il vuoto. Inizio meccanicamente a giocare, una moneta dopo l’altra. Come le noci sotto le feste di Natale. Non penso. Sono libero e allo stesso tempo incatenato a questa stronza dai denti di smeraldo. Non c’è ansia. Non c’è preoccupazione che mi tocchi.
-Maledetta zoccola, prima o poi ti scarico- le sibilo incazzato, ormai trasfigurato in una macchina come quella che mi sta davanti. C’è solo il gioco. Il resto non conta.

Ogni moneta che metto dentro di Lei è un mio piccolo “vaffanculo” al mondo.
Fanculo le responsabilità. Fanculo le bollette. Fanculo l’affitto. La suocera. Gli idioti che in radio blaterano che la recessione sta finendo. I politici. Fanculo quella lagna di mia moglie. Fanculo l’indiano al semaforo che mi vuole lavare a tutti i costi il vetro. Affanculo la gita domenicale. Fanculo i libri di scuola che servono ai bambini. Affanculo sto maledetto paese. Fanculo tutto e tutti.
Ho perso tutto. E mi sento ancora più vuoto di prima. “Ho ancora voglia di giocare. Dannazione”.

Saluto il maledetto dietro il bancone e scappo.

–Ci vediamo tra poco– sorride.

“Che cazzo vuol dire ci vediamo tra poco? Che gran stronzo.”

Esco e il vento freddo mi sferza la faccia. Piove.

Sono in ritardo per il lavoro. Non posso non presentarmi. Mi licenziano. Oggi pomeriggio. La recita.

Ma io voglio solo giocare. La stronza. Il suo sorriso. Mi chiamano.

“Il bancomat è a due minuti da qui”.

‘Fanculo tutto.

#AZZARDO
Slot machine short novel – La stronza dai denti di smeraldo ultima modifica: 2015-03-10T17:15:52+00:00 da YURY