C’era l’America. Quella vera, quella della sigla. Cosa c’è di diverso tra le due stagioni di True Detective? Cosa rende migliore la vicenda dei due antitetici poliziotti rispetto a quella dei quattro corvosi protagonisti dell’intreccio violento della città di Vinci? Tante cose; molte migliori, molte semplicemente diverse.
Vinci è una città estremamente corrotta, il divario tra gli attori sociali forti, i centri del potere e la vita delle persone comuni è netto e incolmabile. In questa malsana metropoli si destreggiano individui in cui il lecito e l’illecito sono mischiati come l’acqua e rifiuti tossici, e le cui professioni sono una comunione affatto velata di violenza, prevaricazione e imbroglio. Ecco la ricetta per la seconda stagione di True Detective, alle prese con il gravoso compito di eguagliare o superare il successo di pubblico e critica ottenuto dal primo capitolo.
Cosa sia giusto e cosa sbagliato, in TD2, viene lasciato all’interpretazione dello spettatore. O meglio, la sceneggiatura cerca disperatamente di dipingere i personaggi secondo varie tonalità di grigio, piuttosto che di bianco o nero. E no, non è Batman. Almeno Batman ha la decenza di stare zitto per la maggior parte del tempo, mentre Velcoro (Colin Farrell), Semyon (Vince Vaughn) e Bezzerides (Rachel McAdams) mettono in scena una gara sfrenata a chi si ricorda più frasi falso-machissime dei film anni novanta che adesso mandano in sequenza disperata alla domenica pomeriggio su Italia1.
In questo tripudio di ormoni e giustificazioni per una vita mangiata dall’alcol e dagli azzardi economici, l’unico che riesce veramente nell’intento di sembrare un perfetto maschio americano, Woodrugh (Taylor Kitsch) nasconde in realtà un aspetto della sua vita di cui teme la pubblica rivelazione più di quanto tema a infilarsi in un seminterrato sotto minaccia di un tizio vestito da milizia privata, che chiaramente non ti sta invitando a prendere parte ad un gruppo di lettura evangelico.
Intendiamoci, per quanto il cinismo sfrenato e blasfemo di Matthew McConaughey avesse, ad una seconda occhiata, molti aspetti esagerati e superficiali, è proprio questo suo ritratto quasi improbabile che lo rendeva un’icona decadente in cui immedesimarsi, un po’ come è stato di recente per Driver, il Ryan Gosling di Drive, e funzionava ancora meglio grazie al contrasto con l’apparentemente solido e virtuoso Woody Harrelson (non sono più riuscito a vedere Non è un Paese per Vecchi con gli stessi occhi).
True Detective 2: una serie fiacca
All’aspetto dialettico ed estremamente simbolico delle vicende del primo True Detective, si oppongono nella seconda stagione le vite di questi quattro sconosciuti, che tali rimangono fino alla fine della fiera. Non provi pietà per loro, non provi rabbia o compassione. Sbagliano tutto quello che c’è da sbagliare, inseguendo un caso noioso e con metà della carica di mistero di una puntata del Commisario Rex. Almeno quel cane non rischiava di farsi investire da un camion in piena curva.
L’America, quella fuori dalle grandi città, quella dei predicatori, quella delle strane credenze fomentate da una presunta luminosa religione cristiana, sparisce in favore di una città qualunque, anonimo fallimento di stereotipia, sul cui sfondo si mimetizzano tanto i protagonisti quanto i grigi completi dei cattivi. I ricatti sono fiacchi, la gente che muore muore fiaccamente (tranne in un caso, forse la scena migliore della stagione), la rabbia è fiacca, persino la discesa nella perdizione e nell’autodistruzione sembra percorsa con una certa flemma; non affrettatevi, tanto non vi va meglio se correte.
Rispetto alla distensione temporale del predecessore, questo capitolo sembra costretto in un arco di tempo troppo limitato delle vite dei personaggi per darcene uno spaccato interessante e duraturo. Nonostante la brevità, la trama riesce a perdersi, risollevandosi solo grazie a ruffianissimi colpi di scena o con il sacrificio di vagonate di vite umane concentrate in un paio di sequenze.
È vero che il caso poliziesco non si conclude perchè il coltello passa velocemente di mano, è vero che l’idea stessa di un rovesciamento rapido, imprevedibile e irreversibile è alla base di questa linea narrativa che aspira ad assurgere a tragedia, atterrando però malamente su un moralismo causa-effetto. Ma è proprio questa mal distribuita densità di trama che rende claustrofobica e sgradevole una vicenda già di per se molto restia a lasciar appassionare gli spettatori.
Dov’è l’indagine?
Difficile poter riutilizzare l’espediente dei flashback e flash forward della prima stagione, difficile replicare lo stacanovismo ossessivo di Rust Cohle nel seguire le tracce dell’assassino, difficile ricreare quel binomio che ha condotto con leggerezza la banale trama principale verso una conclusione naturale seppur discutibile, con molti finali di puntata abili nel loro intento di portare lo spettatore al round successivo senza ricorrere a presunte morti e drammatici silenzi di sguardi significativi. Bastava un disinibito e ruvido discorso di McConaughey e la voglia di riascoltare l’ispirata sigla principale a scorrere le otto puntate della prima stagione, per concedersi qualche ora di un tranquillo, moderno western venato di horror.
True Detective 1 era riuscito, grazie alla personalissima vicenda di due personaggi estremamente diversi, ma accomunati da un finale il cui target medio è l’ignorantissimo americano col collo bruciato dal sole dei campi di granturco, a dipingere una Louisiana superstiziosa e pagana, profondamente scossa dalle catastrofi naturali e dall’abbandono subito dal governo degli Stati Uniti, con una platea di personaggi secondari multiforme e colorata, ma mai trasformata in maschera comica, grazie, e nonostante, un’indagine discreta ma appassionante.
L’indagine, nella seconda stagione, quasi non c’è. È troppo importante mostrarci le faccione degli attori grossi mentre timbrano il cartellino nell’ufficio del degrado noir, indaffaratissimi a farsi notare per un ruolo nel prossimo film di Steven Seagal. Si muovono in un contesto ancora abbastanza ispirato, ma irrimediabilmente più piatto e a-caratteristico ogni volta cerchi di marcare la tipicità di un thriller qualunque.
[Matteo Bodra]