Da Prison Break a prison broken. La storia di Wentworth Miller ricorda che spesso a separarci da una cura per la depressione c’è solo lo stigma.

Essere depressi oggi genera troppi dibattiti. Non sono solo io a dirlo, ma anche i Baustelle, per chi avesse bisogno di fonti più attendibili. E per gli scettici amanti dei numeri, i dati parlano chiaro: si stima che circa 322 milioni di persone facciano i conti con questo disturbo. I casi sono aumentati quasi del 20% in soli 10 anni. Insieme ai disturbi d’ansia, anch’essi in crescita, la depressione rientra tra i disordini mentali più comuni.

Si tratta di un problema in continua crescita, da affrontare di petto, pur rimanendo una questione delicata. Ci ha provato l’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità, in occasione della giornata mondiale della Sanità. Ogni anno il tema proposto è diverso: il 2017 vede protagonista proprio la depressione, scelta come rappresentante di tutte le altre malattie mentali.

La depressione può colpire chiunque e ha un impatto negativo sulla vita quotidiana di chi ne soffre. L’impossibilità di portare avanti una routine e la perdita di interesse nei confronti delle cose che normalmente piacciono, sono solo alcuni dei sintomi. Il rischio di logorare i rapporti con amici e familiari non può che peggiorare le cose. Per queste ragioni l’Oms ha scelto di muoversi.

La campagna dell’Oms

Depression: let’s talk è il nome della campagna promossa dall’Oms, lanciata nell’ottobre del 2016. Si tratta di un invito a rispolverare il potenziale di qualcosa che facciamo tutti i giorni: comunicare.

Comunicare è il primo passo per chiedere aiuto. Ma quando si parla di depressione, spesso a separarci da una cura c’è lo stigma, che colpisce ancora tutte le malattie mentali. Puntare i riflettori sul problema è perciò necessario per sgretolare il muro dietro le quali si nascondono da troppo tempo.

Parlare dovrebbe essere un dovere di tutti, anche di chi non è direttamente coinvolto. Gli studi dimostrano infatti che, all’interno di un ambiente inclusivo, dove il tema è trattato senza pregiudizi, le persone che ne sentono il bisogno sono più stimolate a cercare aiuto. Per chi soffre di questo genere di malattie, poter contare su una rete di relazioni sane e persone pronte all’ascolto, può essere determinante.

Lo scopo della campagna è quello di sempre: portare un argomento al centro del dibattito sulla salute. Decisivo, in questo caso, è che tanto può bastare per fare la differenza e venire incontro a chi è in cerca di sostegno. Sono ancora troppi quelli che si nascondono per la vergogna o per il timore che a qualcuno non interessi. Non è così. La storia recente lo dimostra.

depressione campagna

Quando il mondo cambia in meglio

Tante cose non vanno come vorremmo, spesso questo ci impedisce di godere dei cambiamenti positivi. Come quello che riguarda lo stigma che colpisce le malattie mentali. Di cosa si tratta, nello specifico?

Lo stigma si nutre di ignoranza, pregiudizio e discriminazione e non è un’esclusiva delle malattie mentali. Nel caso specifico, però, grazie alla chiusura delle istituzioni manicomiali e allo sviluppo di un servizio di salute mentale sempre più adeguato, le discriminazioni dell’area pubblica sono diminuite in modo drastico, rispetto alle discriminazioni di genere e a quelle razziali.

Il problema persiste nei rapporti personali. Spiegarne le ragioni significa tenere conto della dimensione soggettiva del paziente. In gioco ci sono dinamiche complesse, impossibili da tenere in considerazione. Perciò, non è tutto riconducibile alla discriminazione, come siamo abituati ad intenderla e sono proprio gli aspetti soggettivi ad aver reso necessario di parlare di stigma interno.

L’aspetto più curioso riguarda una forma di auto-discriminazione che innesca un circolo vizioso che porta chi ha problemi a non cercare aiuto, convinto che non esista soluzione positiva. Questo rende chiaro quale peso si porta dietro chi soffre di malattie mentali.

Risolvere il problema richiede interventi di diverso tipo, anche e ancora nella sfera pubblica. La fondazione progetto Itaca, ad esempio, promuove programmi di informazione, prevenzione e supporto alle persone affette da malattie della salute mentale e delle rispettive famiglie. I progetti comprendono anche un lavoro di sensibilizzazione della comunità riguardo il problema.

Nel nostro piccolo spogliarci dei pregiudizi, parlare liberamente sono solo alcuni dei comportamenti positivi che contribuirebbero a rendere reale il cambiamento radicale sperato.

Responsabilità di ruolo

Dall’anno scorso sempre più celebrità hanno parlato apertamente delle loro battaglie contro le malattie mentali, tirandosi addosso critiche di ogni genere. Perché si sa: chi ha tutto non può stare male. Altro sciocco pregiudizio.

C’è molto di positivo in questo. Se chi ha voce all’interno della nostra società sceglie di farsi carico di responsabilità consone al suo ruolo, consapevole di essere un modello per migliaia, se non milioni di persone, il contributo che può dare per abbattere il muro avrà maggiore impatto (vedi alla voce “influencer positivo“). E poi volete dirmi che non credete nel potere salvifico dell’arte? Ripensate alle vostre canzoni preferite, ad un film che ha toccato le corde giuste. Dubito che la vostra risposta sarà negativa.

Nessuno escluso

Lady Gaga ha raccontato di essere stata vittima di violenza e di soffrire tutt’ora di disturbo post-traumatico da stress. Avete presente la sua esibizione durante l’ottantottesima edizione degli Academy Awards? Til it happens to you parla proprio di quello. La canzone è stata scritta dalla pop star e da Diane Warren per il documentario The Hunting Ground. Al centro il tema degli abusi, in aumento nei campus universitari. E, ancora prima di venire allo scoperto con la sua storia, scriveva e cantava Swine.

Cosa c’è nei vostri cuori?

Selena Gomez, accettando il premio come migliore artista pop/rock femminile durante gli American Music Awards, ha parlato a cuore aperto dell’ultimo periodo della sua carriera. “I had everything, and I was absolutely broken inside”, ribadendo che la popolarità non è una soluzione. E ha continuato “If you are broken you do not have to stay broken”. Non sarà Leopardi, ma spesso questi problemi vengono affrontati come doveri ai quali non ci si può sottrarre. Ancora una volta, non è così.

La forza ragione d’orgoglio

Lontana dai lustrini delle pop star, in una galassia lontana lontana, Carrie Fisher ha parlato per anni, con sincerità disarmante, del disturbo bipolare che l’ha accompagnata fin da giovane, accettandolo come un tratto della sua personalità. Ed è proprio quella sincerità, sorprendente per l’epoca, che ne ha consolidato il ruolo di icona. Dopo la morte le dichiarazioni sulla sua salute mentale, così datate da renderla una pioniera, hanno fatto il giro dei social. Un privilegio che le era stato negato in precedenza, per ovvi motivi. Il risultato? Manca ancora di più. La space princess amata da tre generazioni ha lasciato un’eredità straordinaria, che va molto oltre i suoi meriti artistici.

Esorcizzare la paura

Ultimo, non per importanza, Tim Roth, uno dei pupilli di Tarantino. In un’intervista rilasciata per il Guardian, l’attore ha dichiarato di essere stato vittima di abusi, in un tempo in cui non si era nemmeno in grado di dare il giusto nome ai mostri. Per lui, lavorare su un nuovo film, The War Zone, è stato quasi terapeutico.

Potrei andare avanti ancora, ma la storia che preferisco è quella di Wentworth Miller. Ve la racconto con parole migliori, le sue.

La storia di Wentworth Miller

Wentworth Miller è un attore noto per il suo ruolo di protagonista in Prison Break. Non ne conoscevo la storia finché una sua foto non ha fatto capolino sulla mia home page di Facebook. con tanto di commento del diretto interessato. Difficilmente non l’avete vista. Il post diventò virale e ricevette quasi un milione di like. In caso contrario, rimediamo subito.

wentworth miller grasso

L’attore, protagonista di un meme, ricorda l’anno in cui è stata scattata. Era il 2010 e conduceva una vita lontana dai riflettori. La causa? Una ricaduta nel problema di una vita: la depressione. Spiega infatti di soffrirne da quando era bambino. Per molti anni ha lottato in silenzio, rischiando di perdere.

Il 2010 è un altro periodo nero. Poche persone conoscono la portata della sua sofferenza. In una situazione simile, gli appigli non sono mai troppi. Si butta sul cibo e inizia a ingrassare. “Big f–king deal“, “bel problemone”, ironizza. Un giorno viene beccato dai paparazzi e la sua foto inizia a circolare. L’umiliazione è l’ultima cosa di cui ha bisogno. Ma come scrive lui stesso: “Long short story: I survived“. Parafrasando: potrebbe ricordare quanto è stato tortuoso il suo cammino, ma non serve. Lo fa da qualche anno, con chi lo segue. Ciò che conta è che lui sia ancora qui. Ha condotto la sua lotta con ogni mezzo possibile e ha vinto. Non c’è bisogno di dire altro.

Sono sopravvissute anche quelle foto. Su internet è stato facile ripescarle, riciclarle e renderle di nuovo virali. È l’eterno ritorno del danno e della beffa. Ma Wentworth ha reagito, forte della sua esperienza, scrivendo ciò che pensava a riguardo.

La gentilezza come arma

Rimango incantata dal suo messaggio. Un calcio gentile ai bulli e alla depressione, che gli è costata tempo, relazioni, opportunità e centinaia di notti insonni. La sua battaglia è quotidiana, il fine non è più solo la sopravvivenza. Il suo scopo, ora, è di dare voce ai problemi di molti. Ma soprattutto, di tendere la mano. Perché a qualcuno, da qualche parte nel mondo, importa.

Parlare, mandare un messaggio, fare una telefonata sono piccoli gesti che ci separano dalla salvezza. Lontani da un’educazione piena di pregiudizi chiedere aiuto sarebbe facile. Lo sarebbe altrettanto essere d’aiuto, se imparassimo di nuovo ad ascoltare. E a tentare, almeno una volta, di vestire i panni degli altri, anche quando ci sembrano troppo stretti. L’empatia è un sentimento prezioso che andrebbe coltivato.

Tutto ha senso

Wentworth oggi è un attivista di Active Minds. L’associazione non profit si occupa di cambiare la percezione delle malattie mentali che hanno gli studenti nei college. Il problema rimane proprio questo: una percezione sbagliata, alimentata da pregiudizi. Intervenire su una fascia d’età simile può avere risvolti molto positivi, anche e soprattutto sul lungo termine. Sono già stati fatti enormi progressi, le storie riportate lo dimostrano.

Ora Wentworth Miller si dice contento di quella foto e di quel meme. Guidato dalla necessità di dare un senso, quando guarda indietro vede forza, perdono e guarigione. Nei confronti di sé stesso e degli altri. La sua storia è uno straordinario esempio di resilienza, ma non è unica. Da qui deriva la necessità di parlare. Per mettere fine alla vergogna, allo stigma e al silenzio.

L’insostenibile leggerezza di essere Wentworth Miller ultima modifica: 2017-03-04T14:30:12+00:00 da Federica Coretto